18/09/2023 di Giuliano Guzzo

La Washington University fa dietrofront sui bloccanti della pubertà

I bloccanti della pubertà sono la nuova, vera frontiera dell’ideologia gender: la loro somministrazione è diventata una sorta di conquista politica. Non è un caso, per fare un esempio, che l'attivista trans Eli Erlick si sia recentemente vantato sui social media di aver gestito un'operazione di traffico illegale di droga che prevede la fornitura a minori vulnerabili che si identificano come transgender di potenti ormoni sessuali incrociati, incoraggiando attivamente altri a fare lo stesso. Erlick ha giustificato questo suo gesto parlando di «medicina salvavita per i giovani trans».

Il punto è che si può parlare di «medicina salvavita» solo in una prospettiva ideologica. Già da qualche anno nella letteratura scientifica gli stessi addetti ai lavori segnalano infatti che «c'è un crescente consapevolezza nel mondo scientifico che le cure di tipo affermativo» - cioè quelle che somministrano con disinvoltura i bloccanti della pubertà, appunto - «nei giovani con disforia di genere sono lontane dalla scienza consolidata». Non solo: ci sono sempre più strutture sanitarie che fanno marcia indietro, rispetto al ricorso a simili protocolli terapeutici.

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Un nuovo, clamoroso caso in questo senso arriva dagli Stati Uniti, dove nelle scorse ore il Transgender Center della Washington University presso l'ospedale pediatrico St. Louis ha ufficialmente comunicato che, d’ora in poi, i medici non prescriveranno più bloccanti della pubertà o ormoni sessuali incrociati a bambini e adolescenti. Si tratta di una decisione pesante, anche se non si può parlare di cosa improvvisa. Questa svolta è maturata infatti dopo mesi di polemiche ed arriva sulla scia di una nuova legge appena entrata in vigore nel Missouri, che limita gli interventi ormonali e chirurgici per la transizione di genere ai pazienti di età superiore ai 18 anni.

Va detto che i dirigenti di questo centro non hanno compiuto questo passo a cuor leggero, né in realtà sospinti da ragioni di prudenza scientifica – come abbiamo appena detto – che pure non mancano, bensì per timori di ritorsioni legali. «Siamo scoraggiati di dover fare questo passo», hanno fatto sapere, evidenziando che alla luce delle nuove disposizioni per loro ora è «insostenibile continuare a fornire assistenza transgender completa ai pazienti minori senza sottoporre l’università e i nostri partner a un livello di responsabilità inaccettabile». Ma non c’è solo una nuova legislazione, dietro questa decisone.

Come infatti opportunamente ricorda Eliza Mondegreen su Unherd.com, i riflettori sul Transgender Center della Washington University si erano ben accesi da tempo anche per un’altra ragione: la denuncia – contenuta in una dichiarazione giurata di 23 pagine di Jamie Reed, ex case manager del centro, dove ha prestato servizio dal 2018 al novembre 2022. La Reed  si qualifica come «una donna queer politicamente alla sinistra di Bernie Sanders»; è sposata con un uomo transgender, con cui cresce i suoi due figli biologici e tre adottivi. Parliamo insomma di qualcuno lontano anni luce dal bigottismo, pienamente parte del mondo Lgbt.

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Ciò nonostante, la Reed aveva deciso di farsi avanti con una denuncia che è eufemistico definire esplosiva, segnalando l’assenza di protocolli presso la struttura, all’insegna – a fronte di centinaia di bambini trattati ogni anno – della totale anarchia terapeutica. «Durante la mia permanenza al Centro», ha ammesso la donna,  «ho visto coi miei occhi gli operatori sanitari mentire ai genitori dei pazienti sul trattamento, o sulla mancanza di trattamento, e sugli effetti del trattamento fornito ai loro figli». Una denuncia pesantissima,  dunque, che rende il dietrofront del Transgender Center della Washington University, se non annunciato, almeno comprensibile.

«Forse, quando la Washington University ha avviato una indagine interna», ha scritto Mondegreen, «ha trovato più contenuto nelle accuse di Reed di quanto non fosse disposta a riconoscere pubblicamente. Temono di dover pagare per questo». Probabilmente è così. Ed è tempo che anche altri centri che trattano minori transgender si decidano a vuotare il sacco, ammettendo che ciò che possono offrire ai loro pazienti e alle loro famiglie – per quanto possa apparire inquietante – non sono protocolli sicuri, ma solo esperimenti. Esperimenti sulla pelle di ragazzi che meritano di essere protetti dalla medicina asservita all’ideologia trans e dell’identità fluida.

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