I responsabili della sanità pubblica incoraggiano le neo-mamme ad allattare i loro bambini per almeno sei mesi per via dei benefici sulla salute di madri e bambini sia nel breve che nel lungo termine. Eppure le femministe più combattive continuano a lagnarsi che le responsabilità della maternità, specie se esercitate dalle madri che scelgono di fare ciò che è meglio per i figli, generino una specie di “disuguaglianza”.
Infatti, nel loro studio su 1.300 primipare, Phyllis Rippeyoung dell’Acadia University e Mary Noonan dell’University of Iowa lamentano che l’allattamento restringe le opportunità di occupazione per le madri. Rispetto alle madri che fanno uso di latte in polvere o che allattano al seno per meno di sei mesi, le donne che allattano al seno per un lungo periodo «hanno maggiori probabilità di non essere impiegate negli anni successivi al parto e lavorano meno ore nelle loro sedi di impiego». Esse contestano inoltre che l’allattamento ostacoli «la piena partecipazione delle donne alla vita pubblica».
A parte queste riflessioni, i risultati dei ricercatori sono rivelatori. Esaminando i dati dell’Indagine Longitudinale Nazionale della Gioventù, Rippeyoung e Noonan quantificano «il conflitto tra allattamento al seno e lavoro retribuito». Cercano così di misurare il rapporto tra i tre tipi di cura infantile (alimentazione artificiale; alimentazione al seno per un breve periodo; alimentazione al seno a lungo termine) e gli esiti occupazionali nei cinque anni dopo la nascita. Esse limitano il loro campione di madri a quelle che hanno dato alla luce il loro primo figlio tra il 1980 e il 1993, escludendo inoltre le madri adolescenti così come quelle che non erano comunque state impiegate nelle ultime 24 settimane prima del parto.
In modo non sorprendente, i guadagni medi per tutti e tre i tipi di madri sono diminuiti nell’anno del parto, ma il calo percentuale degli utili «è più estremo per le donne che allattano al seno a lungo termine e più modesto per chi allatta per un breve periodo e per quelle che somministrano un’alimentazione artificiale». I guadagni smettono di scendere in media quando il bambino ha due anni, «ma rimangono molto più bassi nel post-nascita fino al quinto anno dopo il parto». Inoltre per le donne che scelgono l’allattamento a lungo termine, «le entrate scendono più bruscamente l’anno dopo avere avuto il bambino e la curva dei loro guadagni post-parto rimane inferiore a quella degli altri due gruppi di madri». Tuttavia nel corso del periodo è più probabile che queste donne abbiano dato alla luce altri bambini rispetto alle altre due categorie di madri.
Questi risultati reali frustrano Rippeyoung e Noonan, che non sembrano disposte ad accettare la realtà che le responsabilità legate alla cura dei figli – soprattutto neonati, bambini ai primi passi e bambini in età prescolare – non si concilino facilmente per una madre normale con il lavoro esterno, né sarà mai diversamente. Esse ammettono la possibilità che l’atto stesso dell’allattamento al seno possa dirigere l’affetto di una madre verso la vita familiare e lontano dal lavoro esterno. Ma comunque pensano che riconoscendo la legge federale il diritto delle madri ad allattare nel luogo di lavoro, le madri debbano rientrare più rapidamente al lavoro dopo il parto, come se questo fosse ciò che la maggior parte delle madri vogliono fare, e non quello che le ricercatrici femministe vorrebbero che facessero.
Considerato come il matrimonio, la gravidanza, e l’allattamento al seno siano fortemente correlati con il benessere delle donne e dei bambini più di quanto sia l’occupazione esterna, le ricercatrici dovrebbero forse riconsiderare il loro mondo immaginario e invece chiedere «sostegni sociali ed economici» che garantiscano un marito per ogni madre, un padre sposato per ogni bambino, risolvendo le disparità che contano veramente.
di Nicole King