In una lettera di due esponenti del Partito Democratico pubblicata da Avvenire lo scorso 29 giugno si espone la tesi, condivisa da molti, secondo cui la 194 non prevede un "diritto" all’aborto. Se, da un lato, la tesi può essere utile a contrastare le derive francesi ed europee che addirittura vorrebbero fare dell’aborto un “diritto fondamentale”, dall’altro va riconosciuto come anche se la 194 sancisce una semplice “facoltà” di abortire (a tutela del diritto alla salute della madre) essa resta comunque una legge intrinsecamente ingiusta, poiché consente la soppressione di un essere umano innocente. Pubblichiamo di seguito la nostra risposta alla lettera, anch’essa inviata ad Avvenire.
Egregio Direttore Marco Girardo*,
vorrei riflettere con i Lettori di Avvenire sulla lettera di Silvia Costa e Alberto Mattioli, L'aborto non è mai un diritto. Il diverso parere di due dirigenti del Pd, pubblicato il 29 giugno 2024.
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/l-aborto-non-e-mai-un-diritto
Hanno ragione gli Autori: l’aborto non è un diritto, e questo è vero sul piano della Legge naturale, cioè quell’insieme di norme scritte nella coscienza umana (o nella “natura” umana, per chi rifiuta il trascendente) che distinguono l’uomo dagli animali, che con l’istinto seguono invece la sola “legge di natura”, la legge della giungla, la legge del più forte. L’uomo riconosce ai suoi simili, per esempio, il diritto di vivere e sente in coscienza il dovere di solidarietà. Per questa Legge, che è nata con l’uomo e che non cambia mai nel tempo e nello spazio, anche se poi la calpestiamo da sempre con le più svariate scuse, l’aborto certamente non è un “diritto”.
Quando, poi, subentra la legge “positiva”, cioè decisa dal potere umano, essa crea i “suoi” diritti e doveri e può farlo anche in contrasto con la Legge naturale. Cicerone diceva che, in tal caso, la legge dello Stato è una non-legge, perché è una legge ingiusta.
La Legge 194 è una di queste non-leggi. Nonostante l’enfatico preambolo sulla tutela sociale della vita e della maternità, totalmente inapplicato, e alcune condizioni o limiti posti dalla 194 (come il divieto di usare l’aborto ai fini del controllo delle nascite) essa, di fatto, consente a qualsiasi madre di chiedere e anzi di pretendere che il figlio che ha in grembo sia soppresso in base a una pura, semplice e assolutamente insindacabile dichiarazione di volontà. Lo Stato, tramite l’attività dei presidi sociali e medico-sanitari preposti allo scopo, soddisfa sempre tale “interesse” senza mai verificare che siano soddisfatte le condizioni richieste dalla stessa Legge 194 (checché ne dicano coloro che attaccano l’obiezione di coscienza, infatti, non c’è una sola donna cui sia mai stato negato l’aborto).
Quindi, all’atto pratico e al di là della teoria del diritto, la legge 194 conferisce alle donne una “facoltà” di abortire che appare in tutto e per tutto assimilabile non solo a un diritto, ma a un vero e proprio “diritto fondamentale”. Anche qualore le norme della 194 sulla tutela sociale della maternità fossero applicate puntualmente e lo Stato fornisse concrete alternative all’aborto alle madri in difficoltà, queste avrebbero, sempre e comunque, la piena facoltà di eliminare il figlio (come i lettori di Avvenire ben sanno, infatti, l’essere umano ha dignità di Persona sin dal concepimento).
La Legge 194 rappresenta, dunque, la legge della giungla, dove il più forte sopprime il più debole. Non solo per i cattolici, ma per tutti gli uomini e le donne che credono nei valori della civiltà e della democrazia, l’uccisione di un innocente non può mai essere moralmente accettabile, che sia qualificata come diritto fondamentale, diritto semplice o mera facoltà.
Per quanto le “positive” leggi francesi o europee si prodighino nell’inserire il “diritto” all’aborto nelle costituzioni, nei trattati e in qualsiasi altra fonte normativa umana, l’aborto reterà sempre un norma disumana, così come, in un passato per nulla lontano, negli USA era considerato un diritto l’odiosa segregazione razziale.
*Marco Girardo, direttore di Avvenire.