Ognuno può prendere parte al dibattito pubblico. Ma per evitare di essere demonizzato o ridicolizzato, ognuno deve unire la propria voce al coro del pensiero unico. Opinioni dissonanti non sono ammesse. Nel democratico mondo contemporaneo funziona - ahinoi - così. Succede allora che la paura di una reazione negativa costituisca un deterrente alla riflessione critica, spingendo uomini e donne all’omologazione. E succede anche che gli organizzatori di conferenze pubbliche si sottraggano dall’invitare relatori noti per punti di vista controcorrente per non incorrere nella fatwa dei depositari del politicamente corretto.
È quanto dimostra uno studio effettuato in Regno Unito dall’Higher Education Policy Institute e ripreso da The Christian Institute. L’autore, Josh Freeman, ha constatato tra gli studenti una forma di «autocensura» che si verifica appunto quando si preferisce evitare di invitare relatori «a causa dei loro precedenti commenti “problematici”». Freeman ha intervistato ventuno coordinatori di eventi studenteschi in diverse università britanniche. Chi tra loro ha “osato” opporsi a questa forma diffusa di censura surrettizia ha dovuto far fronte ad attacchi verbali. Non solo, «nei casi più gravi», prosegue l’autore dello studio, «gli studenti sono stati vittime di molestie». La questione non ha lasciato indifferenti i vertici degli atenei. La vice-cancelliere dell’Università di Oxford, Louise Richardson, ha evidenziato «la necessità di preservare la libertà accademica e la libertà di parola» come una «sfida chiave» per gli anni a venire.
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La recente ricerca fa il paio con un sondaggio uscito ad inizio mese ad opera del Policy Institute del King’s College di Londra, dal quale emerge che un numero crescente di studenti ritiene che la libertà di parola nella propria università sia oggi minacciata. Il 34 per cento degli intervistati afferma che è “molto” o “abbastanza” minacciata, rispetto al 23 per cento del 2019. Quasi la metà degli studenti (il 49 per cento) ravvisa che gli atenei stiano diventando «meno tolleranti» verso «un’ampia gamma di punti di vista» e il 25 per cento dice di aver sentito “spesso” o “abbastanza spesso” episodi in cui la libertà di parola è stata «inibita» nella propria università, rispetto al 12 per cento del 2019. Ecco allora che più della metà (il 51 per cento) concorda sul fatto che queste paure impediscano alle persone di esprimere le proprie convinzioni.
Ma quali sono i temi tabù? Nello specifico, il 34 per cento degli intervistati ammette che, a causa di questo clima, non esprime in pubblico la propria opinione in merito all’identità di genere. Non c’è da stupirsi. La tendenza a voler «zittire chi pensa diversamente» - per citare un articolo in cui il magistrato Vladimiro Zagrebelsky difendeva la libertà di Pro Vita & Famiglia di contestare l’aborto - è molto in voga tra i paladini dei cosiddetti diritti civili. Il politicamente corretto si è fatta religione laica e qualsiasi pulsione di dissenso è considerata un’eresia da censurare. Oggi occorre quindi coraggio per difendere vita nascente, famiglia naturale, priorità educativa dei genitori, presenza della fede nello spazio pubblico. Ma è un coraggio necessario, per non dover rinunciare a una società libera e plurale, antidoto al totalitarismo.