30/05/2023 di Fabrizio Cannone

L’identità di genere in un carcere minorile. Accade in Puglia

I fautori, cosci o inconsci, della teoria antiscientifica del gender, non si fermano davanti a nulla e a nessuno. E, sapendosi ben protetti dai poteri che contano, si insinuano dappertutto, diffondendo le loro assurdità, come se fossero il talismano della felicità.

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Così, quello che accade è che all’Istituto di Pena per Minori “N. Fornelli” di Bari, unico carcere minorile dell’intera Puglia, è stato avviato un “percorso sulle diversità”. Il percorso, così viene detto, sarebbe stato «fortemente voluto dal direttore Nicola Petruzzelli e dagli educatori», come informa il portale Gionata su fede e omosessualità, tra l’altro lo stesso ad informare – e tra gli organizzatori – delle discutibili veglie delle parrocchie sull’omotransfobia.

Il 30 maggio, ovvero oggi, la scrittrice Alessia Nobile presenterà il suo libro autobiografico La bambina invisibile ai giovani detenuti, e in vista di questo incontro è stato dato spazio ad un tema che ha tutto di conformista e assolutamente nulla di scientifico: l’identità di genere.

Per parlare di tale pseudo identità ai giovani, i quali hanno tutti un’età dai 14 ai 25 anni (se il reato è stato compiuto da minore) e quindi sono in gran parte minorenni, è stata invitata, lo scorso 16 maggio, una certa Antonella. Che non sembra avere particolari titoli accademici, salvo quello di essere «mamma di un figlio transgender».

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Già qui ci si potrebbe chiedere se questa sola esperienza sia sufficiente a fare da testimonial di un percorso che rischia di creare confusione e dubbi esistenziali, più che rassicurare i ragazzi sulla loro naturale (e biologica) identità.

«La testimonianza diretta e informale di una madre – sempre secondo il portale - li avrebbe di certo messi a proprio agio e spinti a esprimersi con serenità e rispetto della figura genitoriale». Serenità e agio o sottile propaganda dovuta alla prossimità che ispira una figura materna?

La stessa Antonella ha dato una breve testimonianza di questo incontro coi ragazzi dell’istituto di pena e sulle sue paure a parlare «della varianza di genere [?] alla luce dell’esperienza personale». Malgrado i timori della vigilia, dichiara entusiasta la mamma del figlio transgender, «“i ragazzi si sono mostrati attenti e disponibili». Anzi, dice: «mi hanno fatto domande” e «hanno espresso ammirazione per le mie scelte ed il mio percorso senza mai contrapporsi ostilmente». Malgrado, «le loro resistenze e i loro preconcetti» (ci chiediamo quali? ndr).

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L’equivoco di fondo però è un altro. In carcere ci si va per reati non piccoli e lo scopo della detenzione è l’espiazione della colpa, la riflessione su se stessi, la necessità di discernere il bene dal male e soprattutto il reinserimento nella società, per tenere fede al dettato Costituzionale che parla di scopo “rieducativo” della pena. Dunque, anche e soprattutto in vista di reintegrare, da cittadini più maturi e responsabili, il consesso civile per collaborare con gli altri concittadini per il bene comune del Paese.

Cosa c’entra tutto ciò con una teoria pseudo filosofica e certamente antiscientifica che predica l’abolizione della biologia e la fluidità sessuale, secondo cui tutti potremmo scegliere cosa essere, come essere chiamati, in quale spogliatoio recarci, se essere i padri o le madri dei nostri figli?

Corsi per la riabilitazione e il recupero etico dei ragazzi è bene che se ne facciano, certo. Per esempio dei corsi di autentica formazione umana e psicologica contro la violenza e il razzismo, per il rispetto degli altri, dei più deboli, della legge, delle Forze dell’Ordine, ma anche della moralità generale e della decenza.

Ma corsi di propaganda Lgbtqia+, ideologici e antiscientifici, che rischiano di creare disagi e ferite - anche sotto mentite spoglie - non vanno imposti ai nostri giovani: né nelle scuole, né nelle carceri, né altrove.

 

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