Siamo al cortocircuito più totale. L’ideologia gender inizia a produrre le sue “varianti” e buona parte della comunità lgbt vi si scaglia contro. L’ennesima tendenza è rappresentata dai “trans-razziali”, ovvero coloro che rifiutano l’etnia cui appartengono geneticamente, preferendo identificarsi con un’altra. Ha fatto un certo rumore, nei giorni scorsi, la vicenda di Oli London, giovane influencer britannico. Il quotidiano Libero lo definisce, per la precisione, «un influencer che si spaccia per musicista, un tale che, per motivi ignoti vanta milioni di follower su piattaforme social quali TikTok e Instagram».
L’ultima notizia sul conto del “nostro” influencer è il suo coming out: Oli London non si sente bianco-caucasico e nemmeno inglese, bensì di etnia asiatica e di nazionalità coreana. Si è quindi sottoposto a 18 operazioni di chirurgia facciale, per assomigliare il più possibile a un uomo dell’estremo Oriente. Per l’esattezza, Oli London (perché poi conservi il nome della capitale britannica nel suo nickname, poi, è tutto da capire…) vorrebbe assomigliare a Park Ji-min, idolo dell’hip-hop coreano.
Di per sé, il fatto sarebbe di scarso interesse, se non fosse che, appena una settimana prima, Oli London aveva fatto un primo coming out, dichiarandosi “non binario”. Migliaia di ragazzi, ormai, specie nel mondo anglosassone, si dichiarano gender fluid per disagio interiore, per far parlare di sé sui social, per ammazzare la noia o per decine di altri motivi. Per molti è semplicemente una moda. Anche questa affermazione, quindi, di suo, rivestiva un’importanza relativa.
Dichiararsi al tempo stesso transgender e trans-razziale, però, forse è troppo persino per i più “trasgressivi”. Si è dunque scatenata, come nelle migliori tradizioni neo-giacobine in salsa social, la rivolta dei follower. L’accusa? «Puoi essere non binario, questo è quello che sei, ma non sei e non sarai mai coreano», gli hanno scritto su Twitter. Qualcuno arriva a dargli addirittura del razzista. Bizzarro… E se Oli London, al contrario, si fosse dichiarato fiero della sua appartenenza all’etnia europea, non sarebbe forse incappato nell’accusa di suprematismo? Si fosse autocompiaciuto della sua nazionalità britannica, siamo sicuri che nessuno gli avrebbe dato dell’imperialista?
Come accennavamo, quella di Oli London non è assolutamente una vicenda isolata. Alcuni anni fa, fece scalpore il coming out di Rachel Dolezal, docente di studi africani alla Eastern Washington University. Per anni, Dolezal ha affermato di essere nata dalla relazione extraconiugale tra una donna bianca e un uomo di colore. Durante l’infanzia, poi, il patrigno la maltrattava per la “pelle troppo scura”. Da questo trauma, aveva reagito diventando un’antirazzista militante. Un giorno, però, i genitori svelarono la menzogna: quella del padre afroamericano era una totale invenzione. Dolezal, pur avendo una carnagione piuttosto scura, era infatti di ascendenze totalmente europoidi. Lei alla fine, ammise: «Riconosco di essere nata da genitori bianchi, ma mi identifico come persona nera». Una trans-black, dunque.
Il “transgenderismo” e il “transrazzialismo” sono due tendenze antropologiche con una comune radice: il rinnegamento di ogni identità solida, di qualunque appartenenza forte. Individui “né carne né pesce”, né maschi né femmine, né bianchi né neri. Soggetti misteriosi, inspiegabili persino a se stessi, in quanto fluidi, in perenne transito da una forma ad un’altra. Questo perenne nomadismo antropologico potrebbe essere scambiato da alcuni come un bisogno estremo di libertà. Si scopre poi, però, che, anche tra questi individui così “liberi”, l’intolleranza, l’invidia e il perbenismo sono all’ordine del giorno. È una gara a chi è “più realista del re”.
Affermare “puoi essere binario ma non ti è concesso di essere coreano” è dimostrativo di un paradosso: chi rinnega la propria identità biologica o etnica, paradossalmente ne sta affermando un’altra. Allora, fino a che punto potrà reggere questo meccanismo infernale?