Il report recentemente pubblicato nella Biblioteca di Pro Vita & Famiglia, scritto da Lorenza Perfori e intitolato "Aborto: dalla parte delle donne", è un documento denso di dati e di citazioni. Da esso vorremmo estrarre ed evidenziare alcune delle questioni sulle quali è particolarmente importante riflettere e sulle quali ci piacerebbe aprire un confronto franco, leale e trasparente con le autorità sanitarie e con gli abortisti, nel vero interesse delle donne e della loro "salute sessuale e riproduttiva". Per la bibliografia e gli approfondimenti, ovviamente, rimandiamo alla nostra pubblicazione
Quante sono nel mondo le donne morte a causa dell’aborto indotto? I dati ufficiali dei decessi, oltre a essere pochi, generici e spesso difficili da trovare, sono soprattutto enormemente sottostimati.
Le ultime Relazioni ministeriali italiane dicono che le donne morte per aborto legale sono un “numero basso”. Ci chiediamo cosa voglia dire “basso” e se sia possibile che una Relazione al Parlamento contenga dati di una tale superficialità e vaghezza. Su circa 70.000 aborti dichiarati è un “numero basso” 7, 70, ma anche 100! Questa omertosa reticenza è davvero inaccettabile.
L’americano Center for Disease Control and Prevention (CDC, centro federale USA per il controllo e la prevenzione delle malattie) riporta per gli USA, nel periodo 1973-2013, un totale di 500 donne decedute a causa degli aborti indotti (chirurgici e farmacologici), delle quali 431 a seguito di aborti legali, 56 da aborti illegali (ovvero eseguiti da chiunque non avesse una licenza per praticare aborti) e 13 decessi indeterminabili perché non si è potuto stabilire se provocati dall’aborto indotto o spontaneo. A questo totale si devono aggiungere altre 19 donne morte dal 2014 al 2017, che portano a 519 le donne ufficialmente decedute negli USA, dalla legalizzazione dell’aborto indotto al 2017.
Nonostante sia dimostrato che i suoi dati sulla mortalità materna di parto e aborto indotto siano fortemente sottostimati in quanto desunti perlopiù solo dai certificati di morte, il CDC continua a mostrarsi riluttante ad adottare le procedure di record-linkage (incorocio dei dati) che permetterebbero una migliore identificazione dei decessi materni. Anzi, ormai non chiede più agli Stati federati detti dati che gli vengono trasmessi solo su base volontaria. Del resto, secondo il dottor Reardon, l’unità di sorveglianza dell’aborto del CDC è gestita da sostenitori dell’aborto ed è regolarmente occupata da abortisti di professione. Insomma: l’unità di sorveglianza del CDC è stata istituita dai sostenitori dell’aborto, non per monitorare l’aborto, ma per diffonderlo e promuoverlo.
Perché, poi, non bastano i certificati di morte? Perché essi riportano solo la causa immediata del decesso, per es. “infezione”, ma nessuno si cura di sapere da cosa sia dipesa l’infezione stessa (e le infezioni sono una conseguenza avversa degli aborti chirurgici e chimici). Per stabilire la vera causa di morte, sarebbe necessaria un’autopsia. Ma in Usa le autopsie si fanno solo a pagamento, e quindi vengono alla luce (sui giornali o in tribunale) solo le morti a causa dell’aborto di donne che appartenevano a famiglie ricche e con un buon livello culturale. Quante donne povere e sole sono morte di aborto non lo sapremo mai. Quante adolescenti sono morte a causa della Ru 486 non lo sapremo mai.
Nel suo ultimo rapporto aggiornato a giugno 2021, la FDA riporta i decessi negli USA dovuti al solo aborto farmacologico, indicando anche le cause che li hanno provocati. Le donne morte ammontano ufficialmente a 26. La FDA riporta, inoltre, ulteriori 12 decessi avvenuti con l’aborto farmacologico negli altri Paesi del mondo.
I dati della FDA sono incompleti e nel resto del mondo solo la stampa locale di tanto in tanto si interessa dei casi più eclatanti. Perché questa mafiosa omertà? Perché questi femminicidi non interessano a nessuno? Forse perché producono profitti per le aziende farmaceutiche?
Solo nel 2013 si erano già verificate 13 di queste morti, così suddivise: 1 in Canada, 1 in Portogallo, 6 in Gran Bretagna, 2 in Francia, 1 in Svezia, 1 a Taiwan e 1 in Australia, alle quali si devono aggiungere: la donna italiana morta nel 2014 per sepsi e shock settico, altre 2 donne inglesi morte a marzo e aprile 2020 e l’attivista argentina pro-aborto María del Valle González López, deceduta ad aprile 2021 per emorragia e setticemia.
In Italia, i dati ufficiali sulle donne morte per RU486 sono scarsi ed evidentemente superficiali e incompleti. Ci dicono che 2 donne (una piemontese e una campana) sono morte nel 2014. Le cause di questi decessi sono riportate nella relazione annuale sulla 194 del 2016. Poi un’altra donna campana muore nel 2016, ma la relazione sulla 194 non fornisce dettagli. Dai numerosi articoli usciti sui giornali, sappiamo che si trattava di una diciannovenne andata incontro a una grave emorragia durante un aborto chirurgico all’undicesima settimana di gestazione, con conseguente shock ipovolemico.
Dal rapporto regionale dell’Emilia-Romagna sulla mortalità materna, apprendiamo che nel periodo 2008-2016 si è verificato il decesso di un’altra donna per embolia settica sistemica 30 giorni dopo l’aborto indotto, decesso che non è stato riportato nelle relazioni annuali sulla 194.
Il primo rapporto ItOSS fa un riepilogo dei decessi materni rilevati in Italia nei primi 5 anni (febbraio 2013 - dicembre 2017) di sorveglianza attiva, specificando che 5 decessi sono riconducibili a «interruzione volontaria di gravidanza (di cui 3 chirurgiche, 1 farmacologica e 1 illegale)», due dei quali sono avvenuti a seguito di sepsi e uno a causa di un’emorragia massiva.
Come si vede, la donna campana deceduta nel 2014, non è stata inserita tra le IVG farmacologiche, anche se di fatto l’aborto (incompleto) e il decesso si sono presentati dopo due somministrazioni di farmaci abortivi. Mentre nulla si specifica sul decesso provocato dall’aborto illegale: è stata usata la Ru486 o era di tipo chirurgico? La donna ha fatto tutto da sola? È stato praticato da una persona non abilitata; oppure la persona era abilitata, ma ha eseguito un aborto al di fuori dei limiti di legge?
Il rapporto ItOSS riporta un altro dato drammatico relativo all’aborto indotto, il quale conferma che di aborto non si muore solo per complicazioni fisiche riconducibili alla procedura abortiva, ma anche per conseguenti effetti psichici avversi: dal rapporto risulta infatti che in 10 Regioni italiane, nel periodo di 7 anni 2006-2012, si sono suicidate 18 donne entro 1 anno dall’aborto indotto.
Ma come dimostrano gli studi di record-linkage sulla mortalità materna di cui si è detto in un precedente articolo (mettere il link), questi dati sono tutti enormemente sottostimati, ovvero rappresentano solo la punta dell’iceberg dei decessi reali avvenuti nel mondo a causa del cosiddetto aborto «legale e sicuro».
C’è poi da aggiungere un'altra tragica considerazione. Gli studi di record linkage (v. il nostro report a p. 136) dimostrano anche che le donne non muoiono solo “di” aborto, ma anche “dopo” l’aborto: a parità di altre condizioni le donne che hanno nel loro passato un aborto volontario muoiono per qualsiasi causa (incidenti, omicidi, malattie, ecc.) più delle donne che hanno partorito (o non hanno avuto figli). È ormai provato che il parto ha una funzione protettiva della salute delle donne che - divenute madri - seguono istintivamente uno stile di vita più sano e tengono comportamenti più coscienti e prudenti rispetto alle donne che - avendo violato uno degli istinti naturali più profondi e ancestrali - hanno causato una lacerazione profonda in se stesse che si può rimarginare solo dopo un percorso di guarigione in cui si acquisisce consapevolezza e si rielabora il lutto.