Non siamo come ai tempi delle Brigate Rosse ma vi sono delle coazioni a ripetere particolarmente inquietanti. Ne è convinto Mario Giordano, conduttore di Fuori dal coro su Rete 4, che rileva la profonda intolleranza di chi ha messo a segno l’aggressione contro la sede di Pro Vita & Famiglia, avvenuta durante la manifestazione dello scorso 25 novembre. Una vicenda che ha molto colpito anche l’opinione pubblica oltre due settimane fa, ma che – come spiega il conduttore – è bene sempre ribadire perché come ha spiegato a Pro Vita & Famiglia, la dinamica è la stessa dei tempi del delitto Calabresi: un cittadino viene preso di mira per le sue idee e, in base a quello, viene denigrato, fino a diventare vittima di un’aggressione ideologica violenta. Chi non condivide il pensiero unico dominante non viene più visto come un avversario da rispettare e con cui discutere ma come un nemico da abbattere.
Mario Giordano, l’aggressione nei confronti della sede di Pro Vita & Famiglia non è certo la prima ma è sicuramente la più grave e clamorosa. C’è forse il rischio di una deriva verso una sorta di terrorismo anti-vita e anti-famiglia?
«Non so se si possa parlare di terrorismo ma certamente quello che abbiamo visto è stato un attentato di violenza terroristica. Quello a cui stiamo andando incontro, e che vediamo crescere ormai da anni, è il tipico brodo culturale in cui poi attecchiscono degli atti di violenza, a partire dal gesto di svilire la vita, la famiglia e tutti coloro che cercano di difendere la vita e la famiglia: questi ultimi non vengono più considerati persone che la pensano diversamente, che hanno un’idea diversa ma soltanto dei nemici da abbattere. È difficile che una persona lanci una molotov se prima non trasforma qualcuno in un nemico: così è avvenuto quando venne ammazzato il commissario Calabresi, un omicidio preceduto da una grandissima campagna ideologica, per cui Calabresi non era più visto come una persona con posizioni diverse, con cui discutere ma come un simbolo da abbattere. Ecco, a me sembra che – in una società che ha il suo punto di riferimento nella cultura della morte – la vita e coloro che difendono la vita siano visti anche loro come dei simboli da abbattere. È evidente che io stesso sono molto vicino alle vostre posizioni, ma accetto l’idea che vi siano persone che la pensano in modo diverso. Non potrei mai pensare di trasformare Cappato in un simbolo e di andare a gettare una molotov dentro la sede dell’associazione Coscioni. Penso semplicemente che siano persone che diffondono una cultura e delle idee profondamente sbagliate. E invece quello che vedo crescere è una società sempre più chiusa dentro un pensiero unico sempre più tambureggiante. Vedere coloro che difendono la vita e la famiglia come dei simboli da abbattere è pericolosissimo perché, se arriva un gesto come quello che abbiamo visto il 25 novembre, è qualcosa di drammaticamente preoccupante».
In ogni caso, a differenza del terrorismo (rosso o nero) anni ‘70, non c’è stata una condanna unanime di questi gesti da parte del mondo politico. Alcuni esponenti di primo piano del centrosinistra sono rimasti in silenzio. Sono forse ricattati? O magari complici? Indifferenti?
«Quella mancata condanna è proprio la dimostrazione che si è talmente immersi in una cultura contro la famiglia e contro la vita che attaccare qualcuno che difende questi principi non è qualcosa da condannare: è davvero preoccupante la diffusione e la condivisione di queste convinzioni. Ribadisco che, al momento, non si può fare nessuna equazione con il terrorismo, però vi sono dei nessi con l’atteggiamento culturale diffuso ai tempi delle Brigate Rosse, che molti non condannavano perché il concetto era che la violenza non poteva essere rossa ma soltanto nera. Anche per questo, allora nessuno ha mai condannato il terrorismo brigatista perché non lo si concepiva come una violenza. Allo stesso modo, oggi non si vede che c’è una violenza nei confronti di chi difende la famiglia; non vederlo, però, è una parte consistente del problema».
L’episodio di sabato 25 novembre è avvenuto nel corso di una manifestazione contro la violenza sulle donne: è davvero così difficile non rispondere alla violenza con altra violenza? È davvero così difficile evitare di fare di tutta l’erba un fascio, identificando tout court i soggetti di sesso maschile come violenti?
«In questo caso, c’è un doppio problema. Il primo problema è che colpevolizzare tutti significa che, se tutti i maschi sono colpevoli, nemmeno chi è veramente colpevole viene considerato tale. Non a caso, vediamo che, dopo pochi anni che hanno ammazzato la fidanzata, certi uomini escono dal carcere perché magari sono obesi e fumano cento sigarette al giorno. Non è mica quindi colpa loro, è colpa della società, della cultura patriarcale o della mascolinità tossica. Quindi, la colpevolizzazione estesa fa sì, poi, che si diffonda il perdonismo individuale. Se è colpa della società, perché qualcuno dovrebbe pagare di persona? Il recupero funziona esattamente al contrario: i veri colpevoli vanno responsabilizzati. Quello che ci serve oggi è una cultura della responsabilità che faccia pagare i colpevoli a seconda del danno che causano. Nel caso Cecchettin, però, si è assistito a un’operazione spaventosa fatta attorno al corpo di questa ragazza: un’operazione ideologica, fortemente voluta per cui della punizione dei colpevoli qui non interessa a nessuno. Quello che interessava era mettere un altro tassello in questa battaglia contro la famiglia e chi la difende la famiglia. Si è creata un’onda emotiva che è stata continuamente alimentata e orientata. Tutto viene visto in chiave politico-ideologica e, secondo me, anche questo non è un modo di fare giustizia a quella povera ragazza, trasformata nello strumento di una battaglia politico-ideologica, da usare contro la famiglia».