Vogliono abolire il matrimonio, per abolire la famiglia. Il disegno esce sempre più allo scoperto.
Il 25 gennaio, in concomitanza con l’approvazione del maxiemendamento che introduceva l’istituto dell’unione civile in Italia – seppure stralciato della stepchild adoption e dell’obbligo di fedeltà per le unioni dello stesso sesso – è stato depositato in Senato un altro ddl (ne abbiamo parlato qui) a firma di Laura Cantini (tra i cofirmatari appaiono Monica Cirinnà e Sergio Lo Giudice), che mira a sopprimere l’obbligo di reciproca fedeltà coniugale sancito dall’articolo 143 del Codice Civile.
Il vincolo di fedeltà nel matrimonio, spiega a Repubblica la prima firmataria, è «un retaggio di una visione superata e vetusta», definitivamente rottamata dal modello dell’unione civile che «recepisce un modello molto più avanzato, che dovrà essere recepito dal codice civile».
Questo ddl, se avesse corso in Parlamento, completerebbe il vulnus inflitto alla fedeltà matrimoniale da oltre quarant’anni di legislazione divorzista, a partire dalla quale il vincolo di fedeltà è stato progressivamente svuotato di senso dalla pratica e dalla teoria giurisprudenziale.
Come scriveva nel 2008 l’avvocato Massimiliano Fiorin, «l’infedeltà coniugale, in linea di principio, è ancora un fatto oggettivamente rilevate per la legge italiana. [...] In realtà, nell’applicazione quotidiana del diritto, da molti anni l’infedeltà coniugale è stata ampiamente derubricata dal novero delle colpe gravi. Anzi, è sempre meno sostenibile che si tratti di una colpa in senso giuridicamente apprezzabile. Al contrario, tutto fa pensare che ormai si sia affermato un vero e proprio diritto a tradire» (1).
Antonio Grizzuti sull’Huffington Post osserva acutamente che l’obbligo di fedeltà non va affatto considerato il retaggio di un’ingerenza clericale. Il codice civile “Pisanelli” emanato nel 1865 recita all’articolo 130 che «il matrimonio impone ai coniugi la obbligazione reciproca alla coabitazione, della fedeltà e della assistenza». Grizzuti cita le parole di Natascia Marchei, docente di Diritto Ecclesiastico alla Bicocca di Milano, che fa notare che quello stesso codice «nell’attribuire efficacia all’ordinamento dello Stato al solo matrimonio contratto civilmente, aveva ridotto all’irrilevanza insieme a tutti i matrimoni religiosi».
«Cosa rimane al matrimonio spogliato della fedeltà?» chiosa l’editorialista dell’Huffington Post. La risposta è semplice: «Ovvio: solo l’interesse economico. Una volta che questo verrà meno “liberi tutti”, anche – perché no – di tenere in piedi una relazione poliamorosa. Mazziati lo siamo già, di questo passo cornuti lo diventeremo ben presto senza possibilità nemmeno di appellarci alla legge. È la modernità, baby».
L’accenno al poliamore si attaglia perfettamente e conferma che il Pd non è altro che il comitato d’affari della borghesia neocapitalistica.
Il poliamore infatti è quella socialità avveniristica annunciata dal visionario tecnocrate Jacques Attali. Secondo Attali si approssima una nuova maniera di relazionarsi denominata netloving in cui uomini e donne, collegati tra loro secondo la modalità della connessione di rete, «potranno avere relazioni sentimentali e/o sessuali simultanee, trasparenti e contrattuali con più persone che avranno a loro volta partner multipli» (2).
Non c’è futuro, nell’ottica del poliamore, per l’esclusività del legame amoroso, giacché «la fedeltà di tipo monogamico sarà considerata un’impostura e un residuo di consuetudini barbare» (3).
Il poliamore riconosce legittimità solo alla «coppia monogama precaria e al matrimonio a contrattualità limitata» (4).
Attali arriva a ipotizzare il matrimonio a scadenza: un’unione strutturalmente provvisoria, che durerà solo un certo numero di anni (come i prodotti del supermercato) e dovrà essere rinnovata esplicitamente col mutuo consenso delle parti, pena l’invalidità del legame. Il divorzio così non sarà più necessario: per restare assieme ci si dovrà risposare.
Le parole del grand commis francese sembrano il calco di quelle della senatrice Cantini: «Nella sua vita ognuno formerà un numero crescente di coppie e l’indissolubilità della famiglia monogamica verrà denunciata come un anacronismo e un lascito della società feudale, ci si prenderà gioco della fedeltà come di un’impostura, di una convenzione artificiale quasi barbara e il divorzio non verrà più vissuto come un fallimento» (5).
Queste teorie dovrebbero inquietare chiunque abbia a cuore le sorti dell’umanità. C’è infatti una differenza sostanziale, ha fatto osservare Albert O. Hirschman, tra la società mercantile e la società famigliare (6).
La società mercantile si regge sul principio di exit (defezione), che definisce la possibilità e la facilità di uscire da un rapporto sociale (nella sua forma tipica un contratto) mentre la società domestica è imperniata sul principio di lealtà o di fedeltà (loyalty).
Sta prendendo forma, grazie alle leggi votate dal Pd e dai suoi fiancheggiatori, la mercantilizzazione-contrattualizzazione di tutti i rapporti sociali. Il poliamore non è altro che un dispositivo congegnato per estendere al campo delle relazioni più intime i princìpi di flessibilità e precarizzazione già applicati al mondo del lavoro in modo da assimilarlo a una merce agganciata alle fluttuazioni del mercato. Il progetto politico renziano rivela così la propria sudditanza a quel modello di «società flessibile», dove la flessibilità si impone quale caratteristica dominante di ogni elemento della vita sociale (7).
Andreas Hofer
(1) Massimiliano Fiorin, La fabbrica dei divorzi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2008, pp. 60-61).
(2) Jacques Attali, Amori. Storia del rapporto uomo-donna, in collaborazione con Stéphanie Bonvicini, Fazi, Roma 2008, p. 225.
(3) Leonetta Bentivoglio, Attali e la coppia ai tempi del consumismo: «Addio monogamia benvenuto “poliamore”», “La Repubblica”, 19 agosto 2014.
(4) J. Attali, Amori, cit., p. 224.
(5) Ivi, p. 223.
(6) Cfr. Albert O. Hirschman, Lealtà, defezione, protesta, Bompiani, Milano 1982.
(7) Cfr. Luciano Galllino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2007; Id., Il costo umano della flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2003.