Formare le coscienze delle persone, tenendo sempre in conto due capisaldi da difendere: 1) l’aborto non può essere un diritto; 2) l’obiezione di coscienza è un principio irrinunciabile. Il pensiero di monsignor Lorenzo Ghizzoni sulla sacralità della vita è molto chiaro, diretto e privo di tatticismi. L’arcivescovo di Ravenna-Cervia è uno dei presuli italiani che più si esprime sul tema dell’aborto. Lo ha fatto anche in occasione dell’ultima Giornata per la Vita (lo scorso 7 febbraio 2021), quando ha detto: «Dobbiamo fare pressioni sulla società civile perché vengano messe in atto tutte le azioni necessarie per salvare ogni vita anche quando essa non è voluta, prevista, aspettata». Intervistato da Pro Vita & Famiglia, monsignor Ghizzoni ha spiegato il senso di questa frase e molto altro.
Eccellenza, che tipo di “pressioni” sono necessarie per riaccendere le coscienze sulla sacralità della vita?
«Intendevo dire che la comunità cristiana dovrebbe aiutare la società civile a prendere coscienza della gravità dell’atto di sopprimere la vita al suo nascere. Quindi, va fatta pressione in vari modi sull’attività politica, legislativa, ammnistrativa affinché sia affrontato il problema. È importante, innanzitutto affrontare le cause che possono indurre una donna o una coppia a prendere la decisione di abortire, affinché avvenga un ripensamento. Tutto questo si può fare, impegnandosi a predisporre qualunque tipo di aiuto economico, morale o psicologico che possa permettere la nascita del bambino e, in seguito, a dare sostegno a chi ne avrà la cura. Non è un obiettivo semplice, è vero, ma se questi aiuti diventano concreti, la prospettiva dell’aiuto alla vita può cambiare moltissimo».
Nella sua esperienza sacerdotale e, poi, episcopale, che tipo di approccio ha usato su questi temi?
«Sono stato una dozzina d’anni rettore del seminario diocesano di Reggio Emilia e ho lavorato nelle parrocchie. In quegli anni, i casi che ho dovuto affrontare riguardavano spesso persone che chiedevano di potersi confessare o compiere un percorso penitenziale, dopo che l’aborto era stato compiuto. Oppure si trattava di donne che erano in dubbio se portare avanti o no la gravidanza, perché si trovavano in situazioni molto difficili, quindi chiedevano consiglio a un prete. Nelle comunità non ho mai incontrato persone che sostenessero la liceità dell’aborto, però quello che mi è sempre sembrato di notare è una certa passività nell’affrontare il problema. Quando si vengono a trovare in difficoltà, spesso le persone scelgono la strada apparentemente più facile o indolore, anche se, a livello morale, psicologico, spirituale, a volte anche fisico, le conseguenze dell’aborto sono molto serie».
A quarant’anni dal referendum sull’aborto, la Chiesa che contributo può dare alla formazione e al dibattito?
«Indubbiamente il risultato di quel referendum fu una grandissima delusione, in un’Italia dove l’incidenza dei cattolici praticanti era ancora molto significativa. Ricordo che, nel momento cruciale della campagna referendaria, i votanti si schierarono più in base agli orientamenti dei loro partiti di riferimento, che non all’insegnamento morale della Chiesa, che pure conoscevano e che, in quell’occasione era stato ribadito. Abbiamo quindi visto come le posizioni della Chiesa fosse minoritarie nella società. Oggi la situazione, in Italia e in Europa (pur con tutte le sfumature, da paese a paese) non è migliorata e questo è il segno di una generalizzata mancanza di coscienza, il che è davvero grave. Da queste situazioni non si esce irrigidendo le posizioni, ad esempio, con la restrizione dei criteri di ammissione all’aborto. Penso, piuttosto, si debba tornare a lavorare sull’educazione e sulla formazione delle coscienze. Altrimenti, se non si percepisce il peso morale negativo della soppressione della vita umana, non c’è legge che tenga. Se la legge è favorevole, ovviamente l’aborto si compie, in caso contrario si percorrono strade clandestine, quindi non si riesce ad affrontare in modo pieno e determinato il problema. Pertanto, credo che la Chiesa debba insistere nel sottolineare l’illiceità dell’aborto, pur stando attenti a non accusare le donne che lo commettono».
Il discorso culturale, dunque, viene prima di quello politico o giuridico?
«Il problema fondamentale è nell’educazione morale della coscienza. È nella coscienza che si prendono le decisioni fondamentali. A prescindere dalle leggi vigenti, se nasce una coscienza comune negativa verso l’aborto, si riduce al minimo il ricorso a questa possibilità. Certo, la presenza di una legge favorevole o permissiva può indurre un maggior numero di persone più deboli, meno formate o più indifferenti, a praticare l’aborto».
In un momento in cui il dibattito si sta nuovamente infiammando e gli abortisti pretendono sempre più “diritti”, qual è il miglior approccio da tenere per un pro life?
«Credo sia fondamentale mantenere due punti fermi. Innanzitutto, va ribadito che non esiste alcun diritto all’aborto. Nemmeno la Legge 194 afferma questo. Esiste e va tutelato, al contrario, il diritto alla vita. Non esiste alcun diritto a sopprimere nessuno. Se è giusto non appoggiare la pena di morte, perché non vogliamo nemmeno la soppressione dei delinquenti, a maggior ragione dovremmo essere contrari alla soppressione di bambini innocenti non ancora nati. Il secondo principio da difendere fermamente è l’obiezione di coscienza. Questo principio tutela i medici e tutto il personale sanitari dalla costrizione a collaborare alla soppressione di una vita. Uccidere non corrisponde alla vocazione originaria delle professioni sanitarie, tutte orientate alla tutela della salute e della vita. La salvaguardia dell’obiezione di coscienza è un pungolo per tutti coloro che vorrebbero fare dell’aborto un diritto senza se e senza ma. Li costringe a riflettere sulle proprie idee e a domandarsi: come società, come famiglie e come persone, cosa stiamo facendo? Dico questo, anche pensando alle tante persone, che si sono venute a confessare da me per aver commesso o procurato un aborto, ripetendo anche la stessa confessione più volte dopo molti anni: un fatto che ci conferma che questa ferita rimane aperta e che l’aborto è un atto contro la natura umana e contro la coscienza di tutti».