Il caso di Noa Pothoven, la diciassettenne olandese che ha posto fine alla sua esistenza nel letto di casa per la depressione seguita ad alcuni stupri subiti, continua a far discutere a distanza di giorni. In particolare sulla verità riguardante la sua tragica fine e, quindi, se si è trattato o meno di eutanasia, suicidio assistito o di un semplice lasciarsi morire di fame e di sete.
Dopo un primo momento, in cui è rimbalzata su tutti i media internazionali la notizia di un’eutanasia vera e propria, familiari e medici che hanno assistito la giovane hanno chiarito che Noa “si è lasciata morire”, smentendo le voci di eutanasia attiva. Ma è davvero andata così? E soprattutto, c’è davvero un lato positivo nel “lasciarsi morire” o, come sembra davvero essere accaduto, nel ricevere aiuto al suicidio?
La morte di Noa, infatti, è realmente avvenuta senza fare ricorso all’eutanasia attiva – che la giovane aveva richiesto a una clinica specializzata senza ricevere risposta affermativa per via della sua età – ma è fuori da ogni dubbio che la ragazza, come hanno espressamente detto i familiari, sia stata materialmente aiutata e supportata a compiere questo gesto. Le ultime, e finora uniche, notizie confermate, infatti, parlano di una Noa che voleva ancora porre fine alla sua vita, tanto che da dieci giorni aveva cessato di mangiare e bere e, nell’attendere la morte nel letto di casa, è stata di fatto assistita dai familiari e dai medici che controllavano gli ultimi istanti del suo calvario.
Da qui dunque le tante riflessioni che si sono poste in questi giorni, sia sul perché una ragazza diciassettenne arrivi a queste richieste, ma soprattutto cosa porta uno Stato ad aprire la strada a tutto ciò, preferendo farla finita e senza più percorrere la strada dell’aiuto, del sostegno, della presenza a fianco di chi vive un dramma di tale portata.
La vicenda di Noa, infatti, va analizzata fin dal principio, quindi da dove inizia la sua agonia e quando è stata veramente uccisa: nel momento in cui è stata violentata, abusata e stuprata è caduta in un baratro da cui è difficile venir fuori e che è ancora più difficile da comprendere. Un dramma che ha avuto come conseguenza una serie infinita di ulteriori drammi: le ripetute violenze subite, lo stato di depressione, la malattia psichiatrica, casi di autolesionismo, tentativi di suicidio e ricoveri. Infine, l’opzione per la morte a l’aiuto a farla finita. E il non aiuto a continuare.
Proprio il non aiuto a continuare a vivere, a tentare di risolvere un problema di enorme gravità mettono sul banco degli imputati la presenza (o meglio l’assenza) dello Stato. In Olanda un paziente (fin dai 17 anni) può chiedere l’eutanasia senza il consenso dei genitori fino a che non trova un medico che accoglie la sua richiesta. È vero, a Noa è stata rifiutata l’eutanasia attiva, ma comunque aveva intrapreso questo percorso, aveva vagliato questa opzione. Un’opzione resa possibile dalla prassi che la vita non è più intesa come un bene indisponibile. Quindi, se mentre prima la morte si accettava ma non si cagionava mai, adesso in Paesi come l’Olanda tutto è possibile, tutto diviene lecito.
Ecco dunque quello che appare essere il nodo cruciale della vicenda di Noa. La morte non è stata indotta medicalmente, ma è stata comunque cagionata, è stata avallata, è stata agevolata. Il suicidio di Noa è stato a tutti gli effetti aiutato. Dai medici che l’hanno assistita e hanno controllato il suo calvario, da uno Stato assente. Uno Stato che – come hanno sottolineato con amarezza quegli stessi medici – non c’è mai stato per Noa, con cure adeguate né realmente fruibili.
Salvatore Tropea