11/09/2024 di Giuliano Guzzo

Non solo Almodovar con l’eutanasia. A Venezia l’ideologia è stata la protagonista, ma non è una novità

Il Leone d'Oro dell’81esima Mostra del Cinema di Venezia, come noto, è andato al film di Pedro Almodóvar “La Stanza Accanto”, una pellicola – è stato già evidenziato su queste colonne – fortemente ideologica e propagandistica della “dolce morte”, secondo la volontà dello stesso regista spagnolo.

Sfortunatamente, quella premiata non è stata la sola pellicola di parte e allineata all’agenda bioetica libertaria e progressista, dal momento che a Venezia sono state proiettate almeno altre due opere in tal senso. La prima è “April”, opera della regista georgiana Dea Kulumbegashvili la cui narrazione ruota attorno alla pratica dell’aborto clandestino oggi – che in Georgia è, appunto, illegale - effettuata da Nina (Ia Sukhitashvili). Quest’ultima è una ginecologa che lavora sia in un importante ospedale del Paese - dove lavora assieme ad ostetriche ed infermiere - sia in sperduti paesini di provincia dove si arrangia da sola con una strumentazione portatile. Non sfuggirà a chi segue l’attività di Pro Vita & Famiglia come il tema dell’aborto clandestino sia uno storico cavallo di battaglia abortista, brandito per segnalare l’urgenza di legalizzare la soppressione prenatale; e pazienza se, anche dopo decenni di legalizzazione, l’aborto clandestino resti, eccome, ben lontano dall’estinguersi.

Tornando al Mostra del Cinema di Venezia, c’è poi stata un’altra pellicola che ha sicuramente compiaciuto i paladini del politicamente corretto e del mondo Lgbt. Stiamo parlando del film “Queer”, opera del regista italiano Luca Guadagnino che, come da lui stesso ammesso, contiene «numerose e piuttosto scandalose» scene di sesso, senza poi dimenticare la trama, anch’essa forte dato che racconta di un americano in Messico negli anni '50, il quale vaga di locale in locale cercando amanti omosessuali, sesso occasionale e stordimento da alcol e droghe, fino a che una sera non vede un ragazzo di cui si innamora.

Ora, qualcuno potrebbe chiedersi come mai – anche ripensando al 2021, quando alla Mostra del Cinema di Venezia fu premiato La scelta di Anne, altro film sull’aborto – tanto interessamento cinematografico, come si diceva poc’anzi, sempre in chiave biopolitica progressista. Nel porci tale interrogativo dobbiamo anzitutto essere consapevoli di un fatto: il fenomeno dura da molti decenni, nel senso che non è nuova la tendenza del cinema a posizionarsi in favore di battaglie politicamente corrette, progressiste e woke.

Basti pensare, per fare un esempio, che quando nel 1974 ci fu il referendum sul divorzio, i film del Belpaese già da anni svolgevano una forte campagna in favore dell’instabilità coniugale. Prova ne siano I fuorilegge del matrimonio, film del 1963 dei fratelli Taviani o Divorzio all’italiana, pellicola con cui nel 1961 il regista Pietro Germi denunciava quella che, allora, era vista come una delle tante ingiustizie del codice penale, ossia il fatto che, paradossalmente, non si ammettesse il divorzio ma si perdonasse l’omicidio, sotto forma di delitto d’onore. La trama del film, infatti, vedeva il barone Fefè - interpretato da Marcello Mastroianni - spingere l’odiata moglie tra le braccia di un vecchio spasimante allo scopo di poterla uccidere, scontando poi, con l’attenuante del delitto d’onore, una pena esigua.

Posto dunque che l’allineamento del cinema d’autore all’agenda progressista non è affatto nuovo, probabilmente esso si spiega da un lato con il fatto che molti registi sono essi stessi faziosi e, dall’altro lato, con la grande difficoltà che i registi (come anche gli scrittori o i cantanti) che invece realizzano opere di altro tenore a farsi largo in un panorama ideologicamente molto connotato; e dove, se non stai dalla “parte giusta”, fatichi a lavorare, per usare un eufemismo.

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