Fino a quindici anni fa bisognava combattere la «dimensione solipsistica dell’aborto» (come scriveva LaRepubblica.it il 5 giugno 2009) e il grido unanime degli abortisti era: «Salviamo le donne dalle mammane!». Ma intanto, nel 2003, l’OMS aveva sdoganato la Ru486 e la propaganda è montata tanto da invertire completamente la tendenza. Ora si dice basta alla medicalizzazione dell’aborto, che l’IVG è un fatto privato, che la donna ha diritto di sbrigarsela da sé.
In Italia la Ru486 è stata usata off label fino al 2010, quando le direttive del Ministero della Salute hanno dettato regole abbastanza stringenti per il suo utilizzo: ricovero in ospedale fino al completamento dell’aborto, non somministrarla alle donne fragili e alle minorenni, curare il consenso informato affinché la donna fosse edotta non solo degli effetti avversi (più gravi e ricorrenti che nell’aborto chirurgico, come confermato dalla letteratura scientifica di riferimento), ma anche dei pesanti effetti collaterali che ci sono sempre.
Intanto, però, la propaganda ideologica ultra-femminista continuava a martellare, e così nel 2020 - approfittando, cinicamente, del delirante clima di caos sociale e giuridico indotto dalla ‘psicosi’ pandemica - le nuove Direttive del Ministro della Salute Roberto Speranza hanno rimosso, con la banale motivazione del “perché così fan tutti”, tutte le remore e le precauzioni previste dalle linee guida precedenti: via libera all’assunzione del mifepristone nelle strutture pubbliche e poi si finisce la procedura “comodamente” a casa, dove dopo circa 48 ore la donna assume in totale solitudine il misoprostolo, che provoca le contrazioni per espellere il bambino morto.
La maggioranza delle Regioni è fortunatamente ancora restia ad assecondare questa pratica, perché pericolosa per la donna che rischia soprattutto emorragie e infezioni che possono rivelarsi anche fatali (nonostante i dati molto sottostimati, si può calcolare che l’aborto chimico sia 10 volte più mortale dell’aborto chirurgico).
Come se ciò non bastasse, recentemente è stato pubblicato sul NEJM uno studio che dimostra come si possa facilmente ottenere lo stesso effetto del mifepristone con l’ulipristal acetato, il principio attivo di ellaOne, la diffusissima “pillola dei 5 giorni dopo”: basta assumerne due e l’aborto è bell’e fatto con un farmaco da banco che si può acquistare addirittura senza ricetta medica.
Bruno Mozzanega, ginecologo dell’Università di Padova, aveva già spiegato (EMEA-261787-2009) come l’ulipristal acetato fosse in grado di bloccare i recettori del progesterone e, quindi, non solo di impedire l’annidamento dell’embrione, ma anche provocare un’interruzione della gravidanza anche in fase successiva all’impianto nell’utero della madre.
Tuttavia, nell’Assessment Report EMA/73099/2015, che ha deciso la libera vendita di ellaOne, si specificava che «non è stato effettuato alcuno studio clinico con Ulipristal-Acetato come abortivo, ed è quindi ignoto se lo si possa usare per abortire». Oggi è stato dimostrato che sì: con una doppia “pillola dei 5 giorni dopo" si può abortire. La rimozione dell'avvertenza contro l'uso ripetuto del farmaco era stata richiesta e ottenuta dalla casa produttrice HRA-Pharma che aveva presentato a supporto lo studio HRA2914-554.
Andrebbe notato, per inciso, che quasi tutte le donne-campione avevano ovulazioni normali durante l'auto-somministrazione ripetuta di ellaOne, che invece è presentata ufficialmente come “anti-ovulatoria”. Ma sorvoliamo sulla questione della potenziale abortività delle pillole postcoitali, anche se importante, perché non è strettamente attinente al problema de quo.
Lo studio in questione ha definito sicure per la salute delle donne delle quantità di UPA uguali o superiori al dosaggio di Esmya, un medicinale usato in passato contro i fibromi uterini, fatto dello stesso principio attivo. Da notare, che Esmya ha causato un decesso e ha portato due pazienti a richiedere un trapianto di fegato , per la qualcosa l’EMA nel 2020 l’ha ritirato dal mercato (v. https://doi.org/10.1016/j.jhep.2020.11.041 ).
In conclusione, oggi, non solo le donne non sono informate sui rischi di ellaOne, ma il fatto che possono acquistarla senza ricetta le induce a ritenere che le auto-somministrazioni ripetute in modo ravvicinato siano “sicure”.
Oltre a quanto detto fin qui, bisogna tenere presente che:
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nel 2023 ellaOne rappresentava il 61% delle 762.796 confezioni di pillole post-coitali vendute in Italia, anche a minorenni;
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la prevalenza di aborti spontanei dell’11% in ragazze fino a 19 anni, registrata dall’Osservatorio Permanente sull’Aborto sulla base dei dati ufficiali, non risulta statisticamente giustificabile: con gravidanze sempre più medicalizzate e monitorate proprio per prevenire gli aborti spontanei, questi dovrebbero essere più rari nelle donne più giovani. Il sospetto che questo dato possa nascondere la pratica di assumere Cytotec off label per abortire - clandestinamente - è del tutto fondato. Ora, oltre al Cytotec possono usare anche un paio di pillole di ellaOne.
Crediamo che la distribuzione del farmaco ellaOne, alla luce delle nuove, b, andrebbe cautelativamente sospesa sul territorio nazionale e che andrebbe finalmente rettificata l'informazione sulla reale natura - potenzialmente abortiva - del farmaco, in ossequio al diritto delle donne di conoscere la verità per poter esprimere un consenso realmente informato.
Qui non si discute il sì o no all’aborto, né si mette in discussione la Legge 194 - che anzi viene violata da chi promuove l’aborto chimico clandestino - ma si chiede solo una seria e reale tutela della salute delle donne. Perché la «dimensione solipsistica dell’aborto» è davvero da combattere. Perché la salute fisica e psichica delle donne conta. Davvero.