«Se dovessi morire, voglio che cerchiate di dare i miei occhi a due dei miei ragazzi. Mi restano solo gli occhi: anche questi sono per i miei mutilatini». A parlare così è don Carlo Gnocchi, il papà dei piccoli mutilati dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale. Donò i suoi occhi quando morì, nel 1956, sfidando persino la legge che ancora non consentiva i trapianti di organi.
Da allora, il gesto d’amore di donare gli organi – perché di amore si tratta – è stato ripetuto infinite volte. La questione della donazione degli organi, però, pone anche interrogativi inquietanti.
Iniziamo prima di tutto dalla barbarie del mercato di organi umani. Da quando è stata inventata la ciclosporina A (una sostanza anti rigetto) negli anni 80, la tecnica dei trapianti ha fatto grossi passi avanti.
Ne sanno qualcosa le vittime della dittatura cinese: a Pechino i condannati a morte sono fisicamente venduti a pezzi a ricchi cinesi e occidentali che vanno in Cina in cerca di organi. Questo orrendo mercimonio, gestito proprio dal governo comunista, è stato documentato con prove schiaccianti anche dalla CNN grazie all’opera di dissidenti, come Harry Wu. Inoltre, la “merce” è così lautamente pagata che – sempre in Cina – molti giovani vedono nella vendita di alcuni dei loro organi una possibilità per sopravvivere alla miseria (come si legge nel sito www.laogai.it). Gli stessi traffici avvengono nei paesi del terzo mondo, dove c’è fame e povertà.
In Occidente, ovviamente, la vendita degli organi è vietata rigorosamente dalla legge. Esiste purtroppo il commercio degli organi clandestino, che per ora è giustamente combattuto.
Ma fino a quando? Se passa la legittimazione morale e legale dell’utero in affitto, perché vietare la vendita di un rene?
Uso degli organi: eticamente è corretto?
Esiste, infatti, una questione etica relativa all’uso degli organi umani.
Si va diffondendo poi il timore che coloro che versano in condizioni gravi possano diventare “terreni fertili” per la “raccolta” di organi, perché dichiarate morte prima ancora che lo siano davve- ro. In Italia, il Comitato Nazionale di Bioetica, nel 1991, ha definito la morte cerebrale come «danno cerebrale organico, irreparabile, sviluppatosi acutamente, che ha provocato uno stato di coma irreversibile».
Il decreto 582/1994 sostiene: «Il periodo di osservazione è di 6 ore per ogni paziente candidato alla diagnosi di “morte cerebrale”, esclusi i bambini di età inferiore a 5 anni, in cui tale periodo è di 12 ore, e i bambini minori di 1 anno di età, in cui è protratto a 24 ore». C’è, però, chi contesta sia il periodo dell’accertamento che la definizione stessa di morte cerebrale. Del resto, l’insospettabile Peter Singer (più volte citato in questo mensile per posizioni contrarie alla vita), in una sua relazione, riportando le parole di uno degli autori della definizione di morte cerebrale, rivela il vero motivo di questa: «La nuova definizione [di morte cerebrale] ci consentirà di salvare molte vite umane, poiché, se accettata, ci permetterà di disporre di un maggior numero di organi essenziali in condizioni vitali per i trapianti» (Beecher, 1971). Perciò, Singer può dire: «La relazione finale della Commissione di Har- vard (che nel 1968 si è espressa sulla morte cerebrale, n.d.r.) non afferma in nessun punto che la nuova definizione di morte rifletta particolari scoperte scientifiche o concezioni più avanzate concer- nenti la natura della morte... Perciò la decisione di abbandonare la definizione tradizionale di morte... è stata una decisione etica e non scientifica».
In conclusione, se il trapianto rimane una grande conquista della scienza perché salva vite umane, è opportuno, però, porsi qualche domanda...
Claudia Cirami
Fonte: Notizie ProVita, marzo 2015, p. 21
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