22/06/2021

Giacomo Rocchi sul ddl Zan: discriminazioni ingiuste e distinzioni doverose

Il dott. Rocchi, giudice di Cassazione, membro del Comitato Verità e Vita, è stato audito dalla Commissione giustizia del Senato a proposito del ddl Zan.
Ci ha gentilmente concesso di pubblicare il suo intervento.
 
 
«1. Porgo i miei saluti al Presidente e ai Senatori presenti. Come magistrato, chiamato a interpretare ed applicare le leggi approvate dal Parlamento, sono onorato per essere invitato a dare un contributo in questa fase, centrale per la nostra democrazia.  
Mi soffermo su due aspetti del disegno di legge n. 2005 già approvato dalla Camera dei Deputati. 
 
2. In base all’art. 2 sarebbe punito chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione fondati sul sesso. Ai sensi dell’art. 1, per “sesso” si intende il sesso biologico o anagrafico. Questa norma rischia di creare una situazione ingestibile e pericolosa. 
Se “discriminare” significa distinguere, cioè fare una scelta, ogni scelta che coinvolge le persone ha a che fare con donne o uomini; quindi, ogni condotta o discorso che seleziona, differenzia, sceglie, promuove ovvero degrada persone è sospetto di discriminazione per motivi fondati sul sesso e, quindi, può dar luogo a una denuncia penale per il reato in oggetto da parte di colui che si sente svantaggiato dalla condotta o dal discorso. 
Il pericolo di un utilizzo spropositato dello strumento della denuncia penale è ampliato dal fatto che la legge non distingue l’ambito pubblico da quello privato e non esclude alcun settore della società. Gli esempi possibili sono innumerevoli: nelle aziende e, in generale, nel mondo del lavoro ogni promozione o licenziamento e ogni nomina saranno valutati anche sotto questo profilo, così come nelle università, nei corpi armati e nei corpi di polizia, nell’amministrazione pubblica, nelle associazioni private e potranno portare a denunce o – peggio ancora – all’utilizzo di una possibile denuncia penale per impedirli o modificarli. 
 
Si tratta di possibilità che – paradossalmente – confligge con la promozione in alcuni ambiti del sesso “debole”, soprattutto quello femminile, sotto due profili: in primo luogo perché le denunce o le minacce di denuncia potranno venire da soggetti dell’uno o dell’altro sesso, cosicché anche le azioni positive nei confronti di una donna potranno essere contrastate; in secondo luogo perché la promozione della pari opportunità tra i sessi può avvenire solo se esiste una collaborazione, mentre la norma instaura un conflitto permanente in cui il collega, il commilitone, il socio dell’altro sesso è visto come possibile discriminatore da colpire, al momento opportuno, con lo strumento penale.
 
Non mancheranno denunce su basi ideologiche: contro il divieto di ammissione delle donne nei seminari o degli uomini nelle clausure, contro l’impossibilità di accedere per donne o uomini ad associazioni private di carattere esclusivamente maschile o femminile e così via.  
 
La possibilità di commettere un delitto come questo è altissima perché, ribadisco, ogni scelta ha a che fare con uomini e donne: sono rimasto stupito nel leggere che il Segretario di un partito che siede in Parlamento ha pubblicamente invitato a nominare come capigruppo due donne, lasciando ai gruppi la scelta; condotta certamente inquadrabile nell’incitamento, o istigazione, alla discriminazione per motivi fondati sul sesso, in quanto si escludeva la possibilità di nominare uomini per il solo fatto che erano tali. 
Concludo su questo primo tema segnalando un ambito particolare in cui la norma potrebbe risultare devastante: quella del conflitto familiare o riguardante l’affidamento dei figli minori. Tutte le scelte difficili che il giudice, i consulenti tecnici, gli psicologi, gli assistenti sociali, gli avvocati sono chiamati a fare in questo ambito potranno essere impedite o affossate dalla minaccia penale (che, come l’esperienza dimostra, già aleggia spesso), rendendo impossibili soluzioni condivise, accordi, rinunce reciproche vantaggiosi per i figli. 
 
3. In base all’art. 2 del disegno di legge sono puniti anche chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. 
Nessun dubbio che la norma incida sulla libertà di manifestazione del pensiero, come dimostra la clausola dettata dall’art. 4, ritenuta insufficiente dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, presieduta dall’on. Stefano Ceccanti e che contiene quell’avverbio – “purché” – che, accostato alla “libera espressione di convincimenti ed opinioni”, al “pluralismo delle idee” e alla “libertà delle scelte”, non può non suscitare un forte timore per chi si è formato sulla Costituzione democratica. Certo: la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà delle scelte di vita non possono portare alla consumazione di reati; ma quando ciò che è vietato – gli atti discriminatori – è descritto genericamente, la condizione posta da quell’avverbio si può estendere indefinitamente. Si noti, comunque, che la clausola verrà in gioco a processo già avviato e non impedirà alcuna denuncia. 
E’ appunto la mancanza di determinatezza della fattispecie penale che fa temere – non ho timore di usare una espressione forte – per la nostra democrazia: come rilevato da un grande maestro, Giovanni Fiandaca, è innanzitutto indefinito il concetto di “discriminazione” che, come ho già rilevato, può intervenire in qualsiasi ambito. Il disegno di legge, infatti, non sanziona discriminazioni già vietate da altra legge, ma afferma che qualsiasi differenza di trattamento è vietata e punita con il carcere. 
La mancanza di determinatezza e di offensività della fattispecie – che sono garanzie costituzionali per il cittadino – è, inoltre, evidente con riferimento alla identità di genere: “identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere”. Il giudice penale punirà con il carcere una persona desumendo dalla sua condotta un “motivo” che l’ha portato a parlare o ad agire, anche se non manifestato, e, ancora, una “percezione” da parte della presunta persona offesa, giungendo a condannare sulla convinzione che l’agente aveva compreso quella percezione e si era comportato di conseguenza. Analogo ragionamento farà per l’orientamento sessuale della persona offesa. 
 
Siamo di fronte ad un delitto di carattere interamente psichico, che non presuppone alcuna condotta lesiva di tipo oggettivo (infatti, gli atti violenti sono puniti separatamente, e non è richiesto nemmeno l’incitamento all’odio, qualunque significato si voglia attribuire a tale espressione): è facile giungere al “tipo d’autore”; dallo “stile di vita” (coniugato, di una certa età, con figli, religioso) si ricaverà la colpevolezza nel reato perché “si sa” chi sono coloro che vogliono discriminare i transgender. 
 
4. In realtà, non tutte le differenze di trattamento costituiscono discriminazione: ad esempio, secondo la Corte Costituzionale, non è tale il divieto per le coppie omosessuali di ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita o, per il legislatore, di unirsi in matrimonio. Le differenze di trattamento da parte dei singoli e dei gruppi possono essere giustificate da vari motivi assolutamente validi.
Non solo: è impensabile imporre con la minaccia della sanzione penale il concetto di identità di genere, così come quelli di omofobia, lesbofobia, bifobia e transfobia, costringendo tutti i consociati a rinunciare alle proprie convinzioni e a recepire una visione antropologica niente affatto imposta dalla Costituzione, niente affatto definitiva, fragilissima, recentissima. 
 
Una norma del genere – e quella, ancora più severa, che, modificando il secondo comma dell’art. 604 bis cod. pen., equipara e punisce al pari di gruppi neonazisti associazioni, movimenti o gruppi, di carattere religioso o laico, del tutto inoffensivi e che supportano scelte valoriali differenti, richiamando anche norme costituzionali come la tutela della famiglia naturale e la libertà di educazione dei genitori – davvero metterà a rischio moltissime persone: il responsabile di una scuola che dovrà scegliere gli insegnanti, il genitore che dovrà assumere un babysitter, la ragazza o la signora che protesterà per l’ingresso negli spogliatoi femminili di persone con organi sessuali maschili che hanno una diversa percezione di sé, il responsabile della palestra che dovrà vietarne l’ingresso, il responsabile del seminario che non vorrà ammettere candidati con tendenze omosessuali, l’atleta professionista donna che protesterà per essere scavalcata da persone di sesso biologico maschile, perdendo guadagni ed opportunità, gli artigiani che non vorranno prestare la loro opera per la celebrazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, il direttore del carcere o del DAP che dovrà decidere sulla richiesta di trasferimento di detenuti di sesso biologico maschile in istituti femminili; e, ancora: il genitore che insegnerà ai figli quanto insegna la Bibbia sulla creazione del maschio e della femmina e sull’amore tra l’uomo e la donna; quello che non farà frequentare le iniziative adottate per la giornata nazionale prevista dall’art. 7 del disegno di legge e così via. 
 
Saranno poi perseguiti coloro che pubblicamente ribadiranno realtà che negano la verità dell’ideologia gender, ribadendo, ad esempio, che un bambino ha bisogno di un padre e di una madre e negando che la madre sia un “concetto antropologico”. Segnalo, da questo punto di vista, che la volontà di censurare manifestazioni pubbliche del pensiero si è già manifestata, come dimostra la vicenda della causa promossa da Rete Lenford nei confronti dell’avv. Carlo Taormina, condannato per avere affermato in una trasmissione radiofonica che non avrebbe assunto un avvocato con tendenze omosessuali nel suo studio: pur in mancanza di una persona offesa, l’avv. Taormina è stato condannato al risarcimento dei danni in favore dell’associazione di avvocati, ertasi a censore del pensiero al pari di certi marescialli dei Carabinieri di una volta. 
Ecco: se il disegno di legge fosse già stato approvato, l’avv. Taormina sarebbe stato condannato penalmente». 
 
Giacomo Rocchi
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