Non ha ottenuto il quorum, in Romania, il referendum volto a modificare la costituzione in modo che risultasse esplicitamente ciò che a tutt’oggi è sottinteso, ossia che il matrimonio è solo quello tra un uomo e una donna.
Serviva il 30% dei votanti per essere valido, ma l’obiettivo non è stato raggiunto.
Il referendum chiedeva che all’interno della Carta costituzionale venisse inserita la specifica per cui il matrimonio può essere solo «tra un uomo e una donna», prevenendo così la possibilità di eventuali proposte di legalizzazione di nozze fra coppie omosessuali, che al momento non vengono riconosciute, ma non sono neanche proibite esplicitamente dalla Costituzione.
Oggi la definizione vigente di matrimonio è infatti quella di «unione tra coniugi», termine al giorno d’oggi ambiguo che lascia aperta la porta al “matrimonio” gay, ma che nell’intenzione dei costituenti (come in tutte le carte dei diritti stilate decenni fa) sottintendeva marito e moglie, maschio e femmina: l’assurdità del matrimonio tra marito e marito o tra moglie e moglie è cominciata neanche vent’anni fa.
In Romania, i proponenti hanno spiegato come l’insufficiente afflusso alle urne non sia stato affatto determinato dalla volontà dei cittadini romeni di dare via libera alle nozze gay, ma piuttosto dalla confusione generata sul quesito referendario.
A sostenere che molta gente è stata travisata e tratta in inganno, è intervenuto anche il responsabile Provita di Bucarest Bodgan Stanciu, che ha anche confermato quanto scritto dalla Nuova Bussola Quotidiana in proposito: «Una pessima organizzazione da parte del governo socialista, una lotta allo sfinimento da parte dei media contro i promotori civici, le poche risorse per la promozione del quesito e la politicizzazione dell’iniziativa da parte del controverso leader socialista Dragnea».
Stanciu aggiunge: «È mancata una campagna di informazione sulle modifiche che dovevano essere applicate alla Costituzione – spiega – e questo ha finito con il confondere le persone. Sulla scheda c’era soltanto scritto se si era o meno d’accordo con le modifiche apportate dal Parlamento e sbarrare un sì o un no. Molti si sono rifiutati addirittura di mettere una croce sull’una o l’altra opzione, non sapendo nemmeno in cosa consistessero queste modifiche. Sono stati spesi 43 milioni di euro per un referendum che non ha portato nessun risultato. Abbiamo il legittimo sospetto che alla fine l’interesse del Parlamento fosse proprio questo, confondere la gente per far sì che non venisse approvato».
Sospetto più che legittimo, anche se va detto che la mancanza di chiarezza è una costante ogni volta che si decide di ricorrere ad un referendum “scomodo”, ossia non approvato e condiviso dall’establishment dominante.
Del resto non fu così anche per il referendum sul divorzio del 1974? Il quesito con il «No» che voleva dire sì al divorzio e il «Sì» che invece voleva dire no, finì con l’ingannare tanti elettori che non furono sufficientemente informati sul fatto che il sì o il no, non riguardavano l’essere o meno favorevoli all’istituto del divorzio, ma al mantenimento in vigore o meno della Legge Fortuna-Baslini che l’aveva introdotto.
Per non parlare degli altri mille referendum i cui quesiti ostici e cervellotici hanno di fatto impedito alla gente di capire su cosa stavano effettivamente votando. Il tutto con la complicità di un sistema dell’informazione non sempre disponibile a rendere più facile la comprensione delle leggi e dei regolamenti per il cittadino comune.
Americo Mascarucci