L’accesso all’aborto a richiesta non diminuisce la mortalità materna.
Questo vale nei paesi sviluppati e a maggior ragione nei paesi in via di sviluppo.
L’Istituto per la Bioetica e Ricerca Sociale “de Veber”, di Toronto, ha pubblicato i risultati di una ricerca che mostra che la pratica dell’aborto non si traduce in un miglioramento della salute delle donne (né dei bambini!).
Ciò si evidenzia sulla base delle statistiche ufficiali delle Nazioni Unite (Angela Lanfranchi, Ian Gentles, and Elizabeth Ring-Cassidy, Complications: Abortion’s Impact on Women, 2013, analisi di oltre 650 studi internazionali peer-reviewed), in quattro paesi che hanno emanato leggi restrittive sull’aborto, negli ultimi due decenni (Polonia, Cile, El Salvador, Nicaragua).
Anche nei paesi in cui l’aborto legale è stato a lungo vietato (Irlanda, Egitto, Uganda, Bangladesh, Afghanistan, Indonesia, Messico) si è registrato un significativo miglioramento della salute materna e infantile rispetto ai paesi limitrofi dove l’aborto è legale e su richiesta.
Gli studi dimostrano che le chiavi per ridurre la mortalità materna sono l’assistenza qualificata al parto, l’educazione per le donne, la disponibilità di cure ostetriche di emergenza, e di trasporto eventualmente necessario ad esse, la sensibilizzazione della comunità, tecniche di comunicazione migliorate.
I governi che meditano di sopperire ai minori stanziamenti americani per l’aborto nei in via di sviluppo, se davvero avessero a cuore la salute delle donne, in quei luoghi, dovrebbero premurarsi di finanziare una migliore istruzione, l’assistenza qualificata al parto e una migliore assistenza ostetrica, piuttosto che l’aborto.
Redazione
Fonte: National Right to Life
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