31/08/2022 di Giuliano Guzzo

Quello dei “baby trans” è un contagio sociale? Probabilmente sì

Se c’è una tesi che fa inorridire il fronte culturale Lgbt, è quella secondo cui la tendenza transgender tra i minori sarebbe sovente, appunto, una tendenza, cioè un fenomeno alla base del quale c’è un «contagio sociale» - che spopola prevalentemente tra le giovani - e non già una propensione innata. Per questo accademici e studiosi vicini al mondo arcobaleno, come lo psichiatra Jack L. Turban, non perdono occasione per diffondere pubblicazioni atte proprio a smontare l’idea di una matrice anche sociale dietro il boom di giovani con diagnosi di disforia di genere.

Un esempio di tali sforzi è Sex Assigned at Birth Ratio Among Transgender and Gender Diverse Adolescents in the United States, una pubblicazione apparsa nei giorni scorsi sulla rivista scientifica Pediatrics tra i cui autori c’è, appunto, il citato Turban. In sintesi, con questo studio viene presa di mira l’affermazione secondo cui sarebbero più le ragazze e i ragazzi ad identificarsi come transgender, osservando che come siano stati più ragazzi che ragazze gli identificati come trans nel 2017 (1,5 ragazzi per ogni ragazza) e nel 2019 (1,2 ragazzi per ogni ragazza).  La fonte per tale affermazione è un questionario adottato da 16 Stati americani facente parte dell'indagine biennale sul comportamento a rischio dei giovani a cura dei Centers for disease control and prevention.

Dunque davvero il «contagio sociale» non c’entra con il fenomeno dei baby trans? In realtà, questo studio non riesce a dimostrarlo e presenta diverse criticità metodologiche. Vediamole. In primo luogo, con il questionario in oggetto si è chiesto agli intervistati se si identificassero come transgender dando loro quattro opzioni: «sì», «no», «non lo so» e «non capisco la domanda». Ebbene, la ricerca uscita su Pediatrics ha considerato esclusivamente coloro che hanno detto di «sì» - il 2,4% nel 2017, 1,6% nel 2019 -, tralasciando però quanti hanno risposto «non lo so», una categoria molto più numerosa (4%); e che potrebbe includere adolescenti che si identificano come qualcosa di diverso da una ragazza o un ragazzo - ad esempio, il «non binario» sempre più comune - o che potrebbero ancora essere in procinto di capire se si identificano o meno come trans.

In secondo luogo, il questionario da cui Turban e gli altri autori della ricerca hanno tratto le loro conclusioni chiedeva anche agli intervistati qual sia il loro «sesso». Ebbene, gli autori dello studio presumono che gli intervistati capiscano che questa seconda domanda significhi «sesso assegnato alla nascita» anziché «identità di genere» e citano tre studi per confermare che è così che gli adolescenti «è probabile che capiscano» la parola «sesso». Peccato che chi si è preso la briga di esaminare queste tre citazioni abbia scoperto che le prime due non dicono nulla del genere e la terza lo accenni solo debolmente. Tanto che perfino chi ha redatto in questionario di cui si sta parlando non ha nascosto la sua «l'incertezza sul fatto che gli studenti transgender abbiano risposto alla domanda sul sesso con il loro sesso o identità di genere».

Non è finita. C’è pure da dire che i dati di questo studio sono incoerenti con la ricerca internazionale e consolidata. Non solo: riguardano esclusivamente gli Usa e, per quanto si riferisca a 16 Stati, il numero effettivo di essi che raccolgono dati è ancora più basso. In ogni caso, questi dati riguardano solo due anni: il 2017 e il 2019. Infine, un’altra tesi che accompagna tale ricerca per confutare la portata del «contagio sociale» nell’ondata arcobaleno tra i giovani è che è impossibile che esso c’entri dato che l’identità transgender è qualcosa di soggetta a bullismo: chi quindi desidererebbe una identità che comporta stigma? Anche qui, però, c’è un salto logico che porta a dimenticare parecchie cose.

Innanzitutto c’è da dire che il «contagio sociale» non implica affatto l’orientarsi, da chi ne viene coinvolto, verso condotte virtuose o che portino alla felicità. Questa è un’affermazione falsa inventata di sana pianta. In secondo luogo, c’è da dire che è la condizione difficile dei giovani con disforia di genere - che prescinde dal fatto che essi abbiano avviato o meno, concluso o meno un iter di transizione – che non di rado espone costoro al rischio di bullismo, a prescindere da tutto. Va in tale direzione un’indagine pubblicata sulla rivista Human Systems che ha scoperto, studiando 79 giovani di ambedue i sessi inviati ad una gender clinic, come - oltre a provenire spesso da famiglie divise – costoro sperimentano in oltre il 62% dei casi ansia o depressione, in oltre il 40% delle situazioni alti livelli di disagi, ideazione suicidaria e autolesionismo e in oltre il 35% di casi disturbi comportamentali.

Morale, la ricerca uscita su Pediatrics in realtà non dimostra nulla. Quindi l’ipotesi che molto del fenomeno dei baby trans possa essere spiegabile in termini ambientali ed esterni continua a restare in piedi. Le testimonianze poi di tanti transgender “pentiti” - che dichiarano d’esser stati avviati troppo frettolosamente al «cambio di sesso», quando erano giovanissimi – la rende qualcosa in più di un’ipotesi. Perché le ricerche e le pubblicazioni si possono anche discutere e criticare, ovviamente; di fronte però a storie e sofferenze reali si può fare solo una cosa: prenderne atto ed avere rispetto. Senza censurarle solo perché politicamente scorrette.

 

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