Manifestazioni di protesta, una petizione di Pro Vita & Famiglia, in seguito anche un’interrogazione parlamentare. La Rai però non arretra di un millimetro e difende a spada tratta il suo ultimo controverso Festival di Sanremo, rivendicando anche gli alti indici d’ascolto. Quasi una doccia gelata per tutti quei cittadini e quei politici che avevano sollevato lo scandalo dell’ormai arcinoto duetto blasfemo Achille Lauro-Fiorello.
A nulla è servita l’interrogazione parlamentare presentata dai senatori Maurizio Gasparri, Paola Binetti, Lucio Malan, Antonio Barboni, Urania Papatheu, Luigi Cesaro, Domenico De Siano e Maria Rizzotti. Rivolti a Marcello Foa e a Fabrizio Salini, rispettivamente presidente e amministratore delegato della Rai, i parlamentari, pur riconoscendo la complessiva buona qualità dell’ultima kermesse sanremese, hanno evidenziato «lo svilimento di simboli cristiani» e «l’ostentata reiterazione di messaggi che contrastano con il rispetto di tutte le posizioni culturali».
È mancato, cioè, secondo i parlamentari interroganti, quel pluralismo, che ogni utente si attenderebbe da un’emittente di Stato. «La discriminazione avvenuta nei confronti dei cattolici credenti – si legge nell’interrogazione – non è tollerabile in una tv pubblica, per di più pagata da tutti».
I parlamentari hanno quindi chiesto ai massimi dirigenti della Rai, se ritengano giusto «vigilare perché siano tenuti nel giusto conto valori importanti, come il diritto a professare la propria religione, senza dover subire attacchi che fanno emergere pregiudizi, irrisione e, in alcuni casi, vere e proprie offese».
Foa e Salini hanno fatto sostanzialmente spallucce, sottolineando che il Festival «non ha avuto alcun intento blasfemo o di irrisione alla religione bensì ha messo in scena una sorta di auto-parodia, portando nella sua performance il proprio contraltare comico, che ha giocato con gli stereotipi di una ricerca dell’immagine choccante a tutti i costi, quasi prevedibile nelle sue manifestazioni».
Arrampicandosi un po’ sugli specchi, il presidente e il direttore generale della Rai hanno quindi difeso quello che, a loro avviso, sarebbe stato soltanto «un innocuo calembour alla ricerca della provocazione, comune denominatore nelle interpretazioni di un artista così discusso e al tempo stesso così popolare come Achille Lauro». Nessun riferimento, quindi, alla «simbologia cristologica», né tantomeno, secondo Foa e Salini, alcun vilipendio della bandiera tricolore, in quanto la contestata esibizione del 5 marzo «aveva come tema il punk rock, un genere che più di ogni altro rappresenta un mondo di provocazione e di sberleffo dei simboli del potere».
In definitiva, saremmo nell’ambito di «un perimetro artistico mai oltraggioso, sempre pluralista, legato certamente a immagini forti, proprio per far arrivare un messaggio forte e chiaro». Il tutto in orari tutelati da «fascia protetta», non essendosi mai Achille Lauro esibito prima delle 22.50.
La seconda domanda inclusa nell’interrogazione parlamentare riguarda gli «indici d’ascolto» dell’ultimo Sanremo e i «costi sostenuti per la messa in scena del Festival», anche alla luce dell’attuale «momento di grave difficoltà per tutto il mondo dello spettacolo». Foa e Salini hanno innanzitutto riferito di «un risparmio di almeno un 5% rispetto ai costi del festival precedente».
Il presidente e il direttore generale della Rai concludono quindi riportando una «media complessiva» di ascolti nelle cinque serate intorno al «47% di share, dato che si può considerare davvero eccezionale, trattandosi di un'edizione realizzata in piena pandemia e in totale assenza di pubblico in sala e, pertanto, non comparabile con alcun'altra pregressa». Un risultato «di assoluto rilievo» è infine quello riguardante il «pubblico giovanile, che rispetto al 2020 ha segnato un +123% sul target 14-24 anni», mentre si è riscontrato «un raddoppio del consumo da parte del target 25-34 anni».
Per la dirigenza Rai, dunque, “squadra che vince non si cambia”, con buona pace dei milioni di telespettatori umiliati nella loro sensibilità religiosa e valoriale. A conferma dell’ormai sempre più profonda voragine esistente tra popolo ed élite: due mondi ormai inconciliabili, dai linguaggi reciprocamente incomprensibili.