Il Giornale diede spazio a suo tempo alla voce di Francesca, la figlia del giudice Pietro D’Amico che cercò e trovò il suicidio assistito in una clinica svizzera nel 2013.
Ora, in occasione di un suicidio analogo, quello dell’ingegnere depresso di Cuneo, il Giornale torna a far parlare la signora Francesca che da quando morì suo padre ha intrapreso una coraggiosa battaglia contro l’eutanasia e il suicidio assistito: un business milionario.
Ogni anno circa 700 persone (il 40% delle quali sono italiane) vanno in Svizzera per farsi assistere nel suicidio.
Ha detto la D’Amico al Giornale: «Mio padre non era un malato incurabile o terminale. Era depresso, è vero. Ma dalla depressione si può guarire. Papà doveva quindi essere accompagnato verso una cura, non verso il suicidio assistito. Chi gli ha permesso di morire senza convincerlo a trovare una via d’uscita alternativa, meriterebbe di andare in galera».
Racconta della telefonata glaciale ricevuta dalla Erika Preisig, fondatrice di una delle prime «stanze della morte» svizzere, che le comunicava la morte del padre. La legge di quel Paese non è chiara nella disciplina del suicidio assistito: «Il sospetto è – dice Il Giornale – che, in cambio di 10 mila euro (non rimborsabili in caso di ripensamento, ndr), le tre cliniche elvetiche specializzate nella “dolce fine” accettino aspiranti suicidi di ogni tipo: compresi quelli non “irreversibilmente incurabili”, come formalmente previsto dai protocolli sanitari svizzeri».
Prosegue il Giornale: «Sospetti che diventano mezze certezze alla luce del recente caso dell’ex politico Lucio Magri, anche lui malato solo di depressione, ma non per questo rifiutato da una delle strutture svizzere». Per questo l’indagine avviata dalla Procura di Como nel caso dell’ingegnere venuto alla luce un paio di un paio di giorni fa, con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio, non è peregrina.
Potete ascoltare Francesca D’Amico in una vecchia intervista di TV 2000 , cliccando qui.
Quello che noi pensiamo sulla solitudine, la depressione e il suicidio, verso cui ci spinge la cultura della morte, l’abbiamo recentemente scritto qui.
E, per tirare su il morale, per scatenare l’effetto Papageno (il contrario dell’effetto Werther che consiste nell’emulazione dei suicidi), e per suffragare Francesca, quando dice che chi aspira al suicidio può essere salvato con una relativa facilità, guardate questo video russo: un motociclista, con la telecamera sul casco, si accorge di un tizio prossimo al suicidio che aveva scavalcato il parapetto di un cavalcavia. Fa una pericolosa inversione di marcia in autostrada e gli urla qualcosa, le macchine si fermano...
L’aspirante suicida desiste dal folle gesto: è bastato che un perfetto sconosciuto dimostrasse di essere interessato a lui.
Redazione
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