Alla base della diffusione della carriera alias nelle scuole occidentali, c’è un movimento giovanile radicatosi in particolare nei Paesi anglosassoni e del Nord Europa. Dal momento in cui, non si tratta di una semplice moda, né di un fenomeno passeggero, è legittimo prendere sul serio i disagi dei ragazzi e delle ragazze di oggi e non limitarsi a risposte “legaliste”. Questa l’opinione espressa a Pro Vita & Famiglia, dalla giornalista Marina Terragni che al tema ha dedicato un lungo focus di approfondimento sul quotidiano Il Foglio.
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Dottoressa Terragni, nel fenomeno della carriera alias quanto c’è di spontaneo e quanto di pilotato dalle élite?
«Per quanto riguarda il nostro Paese, mi pare che il fenomeno nasca in modo imitativo rispetto a quanto è successo all’estero, in particolare nelle università anglosassoni. Per essere dilagato così tanto, però, è chiaro che non possiamo parlare di un semplice “scimmiottamento”. Evidentemente, gli studenti cercano una risposta ai loro interrogativi esistenziali e la trovano nelle carriere alias. Certamente c’è un’insofferenza crescente nei confronti degli stereotipi di genere da parte di molti ragazzi e ragazze, che trovano quindi una risposta anticipata dal mercato. Se poi, alla base, vi sia una manipolazione o se si tratti, come spiega Ivan Ilich, di un prodotto del capitalismo neoliberista è difficile dirlo. È una questione molto complessa, la cosa importante è che le si dia tutta l’attenzione che merita, comunque la si pensi a riguardo. Di sicuro il fenomeno non può essere liquidato come una pagliacciata. Sarebbe, però, un errore anche limitarsi a dire: “C’è la legge 164/1982 che non lo permette”. La politica può anche ribadire che queste cose sono contrarie alla legge in vigore ma non risolveremmo un granché».
Chi sono i “cattivi maestri” o, se si preferisce, gli ideologi di questa tendenza?
«Di ideologi, oggi, ce ne sono pochi. Abbiamo gli “influencer” che fanno parte del mercato e sono un fenomeno economico. Se vogliamo risalire alla radice, il “là” è stato dato parecchi anni fa da Judith Butler col suo libro Gender Trouble (tradotto in italiano con il titolo Questioni di genere), pubblicato nel 1990. Secondo questo saggio, i comportamenti in cui il sesso si esprime, sono condizionati e costruiti. Che le donne tirino la soglia e che gli uomini vadano a caccia, potrebbe essere una costruzione dei ruoli di genere. Butler, però, si spinge oltre e sostiene che persino il sesso nella sua materialità non esiste. Oggi, vediamo la dicitura di “sesso attribuito alla nascita” adottata dal linguaggio corrente di associazioni mediche o di convenzioni internazionali, quindi come qualcosa di politicamente operativo. Il concetto è: non esiste una materialità del sesso, in quanto il sesso è costruito sui ruoli di genere».
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Le carriere alias sono un’anticamera per la transizione di genere e il business ad essa correlato?
«Dipende molto dal modo in cui si interloquisce con la domanda che proviene da questi giovani. La carriera alias è quella che si identifica come una transizione sociale, con il fatto di poter cambiare il proprio genere, a prescindere da qualunque tipo di manipolazione del corpo, per cui un ragazzo può scegliere di usare i pronomi al femminile e, viceversa, una ragazza può usare quelli al maschile. Certamente, soprattutto in Inghilterra, negli Stati Uniti e nel Nord Europa, abbiamo assistito a un impressionante aumento delle transizioni reali, attraverso cure ormonali e, nel caso delle ragazze, a quel fenomeno (di una tristezza senza fine) che è la doppia mastectomia, fortemente mostrato anche sui social, ad esempio su TikTok. In Inghilterra e nel Nord Europa, hanno dato un giro di vite, con tutta la propaganda del caso. Di sicuro, questi movimenti fanno pubblicità alla transizione reale: in quei Paesi i numeri sono aumentati vertiginosamente, quindi non si può negare che ci sia una correlazione».
La legge italiana non permette la carriera alias: ciononostante, questo sistema è stato adottato in qualche centinaio tra scuole e università. Come andrà a finire?
«Spesso sul fronte del gender, sono proprio i regolamenti locali, aziendali o scolastici ad aprire la strada. A Milano, ad esempio, è stato istituito il registro per le persone transgender. Dopodiché, le possibilità sono due: o questi percorsi vanno ad alimentare le norme nazionali o locali, come succede in Spagna, dove a breve dovrebbe essere approvata la cosiddetta Ley trans, che ha accelerato il percorso, oppure, succede come in Italia, dove il ddl Zan è stato bocciato. Qualcuno, ad esempio, il ministro degli Interni o dell’Istruzione, potrebbe ribadire che il cambio di sesso è sancito all’anagrafe e che ciò si realizza soltanto dopo il percorso previsto dalla legge 164/1982 e dalle successive sentenze, nelle quali è stato ritenuto decisivo l’intervento chirurgico genitale maggiore; si prevede in ogni caso un percorso fatto di perizie mediche e psicologiche che terminano con una sentenza. Nel caso dell’alias, avremmo una pre-trascrizione anagrafica senza una sentenza. A rigor di legge si potrebbe inibire tutto il procedimento ma si tratta di un fenomeno così esteso e così radicato, che a me non pare sia questa la strada giusta per capirlo, affrontarlo e arginare i danni reali che si verificano quando un ragazzo o una ragazza decidono di passare all’assunzione dei farmaci che bloccano la pubertà, con tutto ciò che ne consegue».