Agli Stati generali si elabori, per l’Italia, anche un piano di legalizzazione della cannabis. Questo chiedono un centinaio di parlamentari al premier Giuseppe Conte, in un appello lanciato dal deputato M5S Michele Sodano. Una richiesta che viene motivata con un argomento per la verità non esattamente nuovo, vale a dire quello secondo cui sarebbe «arrivato il momento di dare un colpo alle mafie legalizzando la vendita e il consumo della cannabis e sottraendo loro la gestione del mercato e dei guadagni».
I promotori dell’appello hanno inoltre segnalato a Conte che le «politiche repressive si sono dimostrate finora del tutto inefficaci, tanto più che in Italia al momento i consumatori di Cannabis sono sei milioni, nonostante il proibizionismo». Anche perché, hanno aggiunto di autori di questa sorta di manifesto richiamandosi ad uno studio dell’università La Sapienza, se si legalizzassero le cosiddette “droghe leggere” vi sarebbe «un beneficio per le casse dello Stato pari a 10 miliardi derivanti dai risparmi dell'applicazione della normativa di repressione e dal nuovo gettito fiscale che comporterebbe l'apertura del mercato alle aziende».
Ora, benché apparentemente fondato, questo appello pro cannabis fa acqua da tutte le parti. Anzitutto perché rilancia, come già si diceva, una tesi datata, e cioè quella secondo cui legalizzare le droghe significa strappare mercato alle mafie; un pensiero che già il giudice Paolo Borsellino, uno che alla criminalità non faceva sconti, liquidava come «tesi semplicistica e peregrina», tipica di quanti hanno «fantasie sprovvedute». Non solo. Anche un altro magistrato in prima linea contro la criminalità organizzata ritiene totalmente sbagliato legalizzare la cannabis nell’illusione di fermare certi mercati.
Parliamo di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro da una vita in prima fila nella lotta alla `ndrangheta, il quale in più occasioni da un lato ha evidenziato come oltre il 90% dei tossici faccia uso di droghe pesanti - il cui traffico rimarrebbe nelle mani del crimine - e, dall’altro, ha spiegato come la commercializzazione legale di canapa costerebbe tre volte in più di quella illegale, che quindi rimarrebbe – tanto più in una fase di crisi economica – padrona del mercato. Ma se neppure Gratteri dovesse apparire attendibile, ai pro cannabis si potrebbero comunque opporre degli ostacoli invalicabili: i fatti.
Quali fatti? Quelli che sottolineano come legalizzare gli stupefacenti non neutralizzi affatto il giro d’affari mafiosi, anzi. Una constatazione figlia dell’esperienza e che è stato costretto a riconoscere perfino l’insospettabile Corriere della Sera che il 23 novembre 2019, in un articolo a firma di Massimo Gaggi, a partire dall’esperienza appunto di ben 11 Stati americani e del Canada, definiva la legalizzazione un vero e proprio «fallimento», con un mercato illegale prospero come se non più di prima. «Perché questo quadro fallimentare del mercato?».
Lasciamolo spiegare direttamente a Gaggi: «Tanto in Canada quanto negli Stati Uniti il principale fallimento riguarda quella che era stata la principale motivazione alla base della campagna per la legalizzazione: eliminare il mercato nero. Spazzare via un intero settore dell’economia criminale creando al tempo stesso un nuovo settore economico legale che produce lavoro ed entrate fiscali. Non è andata così: tanto in Canada quanto negli Usa la marijuana illegale continua a prevalere su quella che transita per i canali regolari».
«In sostanza», concludeva quindi il giornalista del Corriere, «il racket della droga si è dimostrato abile e reattivo nell’abbassare i costi del suo prodotto importato illegalmente». Ecco, sarebbe il caso - se proprio agli Stati generali si deve parlare di cannabis – che qualcuno faccia avere a Giuseppe Conte anche queste informazioni. Per completezza, se non altro.