Ai bambini e agli adolescenti sono proibite un sacco di cose: guidare automobili, bere alcolici, fumare tabacco, adoperare le armi, talvolta persino nutrirsi di determinati alimenti (ad esempio i funghi prima dei dodici anni). A ciò si aggiungono le varie proibizioni di dettaglio imposte magari dai genitori: usare PC o telefono oltre una certa ora, stare troppo davanti alla TV o ai videogiochi, mangiare troppa cioccolata e tanto altro. Eppure tutti, pure loro stessi quando matureranno, capiranno che si trattava di limitazioni sacrosante, praticamente tutte concepite per la loro tutela.
Ciò che non sapranno spiegarsi, così come non riusciamo a spiegarcelo noi oggi, è il motivo per cui ad essi, pur con tutti i divieti prudenziali citati poc’anzi, è concesso accedere con estrema facilità ai processi affermativi del genere. A tutti gli effetti essi sono pericolosi come un’arma, o meglio quanto è pericoloso un farmaco assunto off label, cioè per finalità diverse da quelle per cui è stato creato. Il riferimento è naturalmente soprattutto alla Triptorelina, medicina da prescrivere per problemi legati al tumore alla prostata, ma allegramente distribuita per bloccare la pubertà di chi, ancora non abbastanza maturo per comprendere in pieno le proprie pulsioni, sente di voler giocare a essere uomo (se è femmina) o donna (se è maschio).
Certo, non dappertutto è semplice accedere al farmaco: da paese a paese cambiano requisiti e condizioni. Il punto è che il problema non sta soltanto nella triptorelina, nelle sue conseguenze a lungo termine, quando usata come bloccante della pubertà, che ancora non si conoscono (e quelle poche che si conoscono sono tanto negative quanto rapidamente occultate). Non è un caso che abbiamo parlato di generici “processi affermativi del genere”, cioè di tutto un insieme di possibilità e attività che non hanno necessariamente a che fare con la farmacologia o la chirurgia, ma che tuttavia sono in grado di portare bambini e adolescenti all’interno di una sfera d’influenza inappropriata, quella che asseconda e favorisce la transizione dal punto di vista culturale e psicosociale. Lì non c’è alcun limite in nessun paese, ed è così che il contagio dilaga.
Ebbene sì, perché si può parlare di un vero e proprio “contagio sociale”. Anche senza assumere farmaci, infatti, banbini e adolescenti hanno molta facilità di entrare in contatto con il flusso genderista: basta un manifesto relativo all’Agenda 2030 dell’ONU, qualche incontro “di approfondimento” a scuola, l’incontro con un medico troppo giovane o progressista o la frequentazione dei profili sbagliati su Instagram o TikTok, ed ecco che la pozione inquinante si insinua subito rapidamente all’interno di menti già minate da una normale angoscia esistenziale e adolescenziale. Le famose domande “chi sono?”, “cosa voglio”, “perché sto male nel mondo”, che un tempo trovavano sfogo e risposte nelle parole e nella musica di alcune canzoni, nel confronto personale e fisico con gli amici o con una scuola che manteneva il ruolo di caposaldo dei valori naturali, oggi trovano non-risposte in un contesto che ha pronta una chiave di lettura univoca del disagio esistenziale: è semplice, ragazzino, sei nato nel corpo sbagliato. Ma su con la vita: puoi sempre cambiare il tuo genere, con la facilità con cui cambi le sneakers quando passano di moda.
Esistono protocolli facilitanti questo processo in tutti gli ambiti frequentati da giovani e giovanissimi. Sempre più scuole, di ogni ordine e grado, infatti, si rendono disponibili a declinare il nome e i pronomi secondo il sentore del momento dell’allievo o dell’allieva. I genitori stessi che vogliono vederci chiaro, che sanno, che sentono che il problema non ha nulla a che fare con l’identità di genere, devono affrontare protocolli medici che, come un imbuto, incanalano il tutto verso le terapie affermative, a meno di non trovare ancora disponibile qualche medico della vecchia scuola. Nei centri ricreativi le cose non vanno diversamente. In molti casi, l’inizio della transizione psicosociale avviene all’insaputa dei genitori, aggiungendo quel po’ di proibito che ne aumenta l’appeal. Il tutto con uno spesso cordone protettivo attorno. Anzitutto si prova con la paura (“se non permetti la transizione, tuo figlio si suiciderà”) e poi c’è la gogna sociale: ci provino i genitori a contestare e l’accusa di transfobia, ormai parificata all’alto tradimento, scatta rapida come una tagliola.
Prima di arrivare alla triptorelina e al bisturi, dunque, c’è tutto un sistema di accoglienza e favoreggiamento delle procedure affermative che si è installata e ha messo radici profonde in tutto il mondo che entra in contatto con bambini e adolescenti, allo scopo di garantire il contagio sociale. Ossia di rendere norma la risposta affermativa di genere a ogni disagio manifestato in tenera età o nell’adolescenza.
Ma come è accaduto che questo genere di rete si creasse quasi senza colpo ferire? Come la scuola e la sanità, un tempo baluardi di un’etica protettiva dell’umano, si sono piegati a questi termini? Per banale che sia, la risposta è la più semplice: soldi e sopravvivenza. Gli ideologi del degrado umano se la sono pensata bene e oggi i fondi per svolgere tali attività arrivano, ossia è assicurata la sopravvivenza di ambulatori, centri d’insegnamento o ricreativi, spesso solo se sussiste piena conformità agli assiomi dati. Basta dare un’occhiata ai bandi internazionali o nazionali per il finanziamento di progetti nei più disparati settori, tanto infarciti di milioni di euro (o dollari) quanto di direttive ideologiche miratissime, tutti rami della malapianta rappresentata dall’Agenda 2030.