Pubblichiamo con gioia questa testimonianza, in prima persona, di adozione internazionale.
In un frangente socio-politico in cui si parla molto di adozioni gay è importante dare voce ai tanti genitori che hanno deciso, con coraggio, di fare spazio a un bambino adottivo. Con tutte le difficoltà che ne derivano.
Questa è la nostra storia di adozione.
Tutto ha avuto inizio dopo cinque anni di matrimonio: io e mia moglie, di comune accordo, decidemmo di fare domanda di adozione.
Non avevamo perso la speranza di avere figli biologici, perché nessuno dei due era sterile, ma di analisi, visite e trattamenti, cui ci eravamo sottoposti per anni, ne avevamo abbastanza. Ci avevano detto che saremmo potuti diventare genitori con la fecondazione artificiale, ma quella possibilità la scartammo. La sola eventualità che degli embrioni, frutto delle nostre viscere, potessero morire per la nostra volontà di genitorialità, che si stava trasformando, quasi nostro malgrado, in un’ostinazione, ci risultò intollerabile.
Pensammo che la domanda di adozione sarebbe servita a stemperare le nostre ansie e quel senso di frustrazione sedimentato nel tempo. Ci dicemmo che, se lei fosse rimasta incinta, avremmo lasciato perdere, ma intanto sarebbe stato bene così.
Seguimmo, prima con distacco, poi sempre con maggiore coinvolgimento, una lunga trafila burocratica, fra documenti vari da presentare al Tribunale dei Minori, colloqui con l’assistente sociale, con la psicologa, incluso un corso di più sedute (interessante) che frequentammo all’ASL.
Depositai la domanda con tutta la documentazione un giorno di marzo del 2003. Ci sentivamo pronti tanto all’adozione nazionale quanto a quella internazionale, ma fin da subito ci dissero che per quella nazionale era difficile.
Aspettammo per più di un anno il decreto che ci avrebbe dato l’idoneità per rivolgerci ad uno degli Enti accreditati per l’adozione internazionale. Il tempo che passava aumentava la trepidazione e più volte ci rivolgemmo all’assistente sociale perché si informasse o chiedesse, lei per noi.
Quando finalmente arrivò il decreto non persi tempo e dal Tribunale dei Minori mi precipitai all’Ente, ch’era dall’altra parte della città, con il traffico che aumentava la mia impazienza.
All’Ente seguimmo un percorso di mesi, con incontri periodici che interessavano i vari risvolti dell’adozione internazionale. Terminato il corso a marzo del 2005, passò tutta la primavera e poi l’estate. C’erano delle complicazioni internazionali, ci dissero.
Ad ottobre fummo convocati per una bambina in Russia.
Iniziò allora una nuova corsa per la documentazione. Mia moglie preparò un elenco con diverse voci che via via spulciava. Bisognava produrre un attestato di lavoro, mio e suo, con indicazione del reddito lordo dell’anno pregresso, la visura catastale della casa di nostra proprietà, un certificato generale del Casellario Giudiziale indicante se c’erano carichi pendenti, un certificato psichiatrico e un certificato medico attestante la sana e robusta costituzione, che includeva ben nove visite specialistiche e quattro diversi accertamenti. C’erano poi altri moduli da riempire e produrre debitamente firmati. I documenti andavano infine tutti apostillati (l’apostille è una certificazione che convalida, con pieno valore giuridico, sul piano internazionale l’autenticità di un atto pubblico) in Prefettura, e ciò era possibile solo in determinati giorni.
Quando decollammo per la Russia sapevamo che aveva cinque anni e solo a Mosca ci fu detto che la bambina era in un piccolo istituto del sud, a circa 1000 km. Partimmo la sera stessa in treno con l’interprete e arrivammo nel pomeriggio del giorno dopo.
Quando ci fu portata la bambina, lei era immobile. Si capiva che era impaurita, quasi impietrita. Anche la caramella che le misero in bocca non la smosse. Cercavamo di sbirciarne il volto per incontrare gli occhi, ma essi erano fissi dall’altra parte.
Avevo rincorso il desiderio di un figlio per anni, avevo atteso quel momento quasi ossessivamente, avevo fatto migliaia di chilometri, ma ora mi sentivo estraneo e come fuori luogo. Mi sembrava di violare quel mondo infantile, di entrarvi non richiesto, e che tutto quanto ci eravamo detti, avevamo pensato e sognato equivalesse ad una ragione di parte sottilmente egoistica. Ora rivedevamo tutto dall’altra parte, con gli occhi di una bimba cui avevano detto che erano arrivati mamma e papà, ma che si ritrovava di fronte due adulti che parlavano un’altra lingua.
Fu come un rivolgimento inatteso, che però ci dischiuse ad un’infinita responsabilità. Tacevamo anche noi, come la bambina, forse perché l’amore per cui si tace è condivisione.
Stemmo con lei un’ora e mezzo e ripartimmo.
Aspettammo quasi due mesi e fummo riconvocati.
Ripartimmo e il 12 dicembre eravamo a Voronezh, capoluogo della regione. La bambina ci fu data in adozione dal giudice del Tribunale russo. Arrivò su un piccolo pulmino assieme ad altri bimbi dell’istituto e quando ci vide ci venne incontro con le braccia aperte, mentre gli altri bimbi – seduti sugli strapuntini del piccolo furgone – ci guardavano un po’ incuriositi e un po’ invidiosi.
Da allora è la nostra prima figlia.
“L’adozione è un sogno di tanti bambini e di tante famiglie, perché racchiude ognuno i bisogni e le esigenze dell’altro: il desiderio dei genitori di accogliere i loro figli e il sogno dei bambini di avere una madre e un padre. Dentro questa reciprocità di bisogno e di amore nasce e matura il progetto adottivo”
(Osvaldo Rinaldi, Zenit.org 4-11-2014)
Clemente Sparaco