Riproponiamo ai nostri lettori un articolo apparso sulla rivista Notizie Pro Vita un po’ di tempo fa (era il febbraio 2013).
Merita di essere letto (o riletto), perché è una testimonianza forte e attuale, di una delle innumerevoli persone che conoscono bene il mondo dei disabili mentali e sono convinte che la loro vita sia più che degna di essere vissuta.
Il pezzo si intitolava “Vite”.
Per fortuna il mondo è pieno di associazioni e movimenti che testimoniano nella concreta realtà quotidiana che la vita dei disabili è “degna di essere vissuta” e che le prospettive di felicità di un essere umano non dipendono né dal quoziente intellettivo, né dalla mappatura dei cromosomi. Basti pensare all’esercito di normodotati depressi, drogati, infelici e “scoppiati”, che popolano questa nostra società opulenta.
Intervistiamo, dunque, un membro della nostra redazione che da più di 30 anni fa parte dell’associazione internazionale Fede e Luce, nata in Italia 40 anni fa, grazie al carisma di Jean Vanier, che già aveva fondato l’Arche e Foi e Lumiere in Francia.
- Francesca, la vostra Associazione vuol testimoniare che con i disabili mentali si può creare un rapporto di amicizia. Non sono, insomma, persone da accudire e basta, un peso per la società?
So con certezza, perché l’ho sperimentato, che gli esseri umani non comunicano solo con parola, gesti, o comportamenti concludenti e razionali. Esiste un livello di comunicazione di sentimenti, un “feeling”, direbbero gli inglesi, impercettibile ai cinque sensi eppure reale e concreto. Conosco persone che non sono in grado di parlare e di esprimersi in alcun modo, assolutamente chiuse in se stesse, del tutto non autosufficienti, che comunicano.
- Hai in mente qualcuno in particolare, nel dire queste cose?
Ho in mente moltissime persone. Elena, per esempio. Serrata dietro il muro dell’autismo da quando è nata, appare men che nulla, ma invece…. Si lascia fare di tutto e ogni tanto graffia o tira i capelli, anche senza motivo, solo perché in certi momenti si sente ostacolata nel suo “Essere”. Rarissimamente guarda negli occhi; anzi non guarda mai niente e nessuno, ma vede tutto. E ti vede dentro. E mette a nudo davanti a tutti e soprattutto davanti a te stesso la tua povera umanità, rimuovendo d’un colpo la fragile apparenza di cui spesso siamo fatti.
Elena fisicamente ti può mettere KO in poco tempo: tu non puoi vincere, puoi solo fuggire. Se accetti il confronto non hai tregua finché non ti denudi l’anima e t’inginocchi davanti all’Eterno e al Mistero gemendo: ”Perché?”. E quando la risposta non arriva e tu vorresti finalmente farla finita e andartene via, ti scopri imprigionato in un profondo, reciproco, struggente, legame d’amore. Elena mi ha salvato la vita. Mi ha evitato scelte sbagliate e disperate, mi ha fatto crescere nella direzione giusta, mi ha insegnato la giusta gerarchia dei valori. Se Elena non fosse nata, se non l’avessi incontrata, non oso pensare dove sarei e cosa sarei.
- Ma queste persone conducono una vita “degna di essere vissuta”?
Maria Rosaria era spastica, poliomielitica, ritardata (a 53 anni, era come se ne avesse 6), sorda, e ha avuto il cancro. La mia “grande” fede, allora, si è mostrata più fragile di quanto pensassi. Mi sono ritrovata drammaticamente libera di credere o no e di scegliere così la speranza o la disperazione. Ed è stata lei, proprio lei, Maria Rosaria, che mi ha insegnato la speranza, mi ha detto “Dove sono debole, è allora che sono forte”, con tutti i suoi handicap. E’ stata più forte e in gamba di me perché ha saputo sopportare tutto.
Non era un angelo, in vita. Anzi era una persona determinata e testarda (e anche gelosa!). Se poteva imbrogliava anche, pur di ottenere quello che riteneva giusto. E se non riusciva a imbrogliare, ti chiedeva, per favore, di imbrogliare tu, contro te stessa, per far vincere lei… Era più simpatica che dolce. Non esitava a comandare e guai, se il comando non era eseguito a puntino! Del resto le persone che amava erano “sue”. Poi, a conoscerla bene, nell’intimità, si rivelava dolce e indifesa. Come quando si lavava i denti. O si vestiva e diceva che voleva fare da sola. (E faceva da sola. Tutto. Impiegando un tempo infinito). Da lei ho imparato l’amicizia vera. Ho imparato cosa vuol dire voler bene in modo gratuito. Da lei ho imparato a parlare con poche parole. Più a fatti che a parole. Da lei ho imparato la pazienza. Da lei ho imparato un sense of humor più unico che raro. Da lei ho imparato la fedeltà.
Da lei ho imparato a vedere belle le persone (me stessa compresa) a prescindere dall’aspetto fisico. Da lei ho imparato a cantare senza suoni. Con lei mi sono sempre divertita. Di lei mi porterò sempre nel cuore il sorriso. E’ stata una vita vera, piena di gioie e dolori, di salute e di malattia, come la vita di chiunque.
- Mi pare di capire che sia morta per un cancro. In un caso del genere molti pensano che sia più umano e più giusto “aiutare a morire” le persone.
Fino alla fine è stata aggrappata con le unghie e con i denti alla vita, nonostante la sofferenza. Se per un momento mi è passato – con orrore – per la mente che “farla” morire poteva essere una liberazione, ora sono più che mai convinta che lei assolutamente e disperatamente, comunque, voleva vivere. L’eutanasia è decisamente e sicuramente solo un atto egoistico interessato a porre fine al dolore (che può essere anche immenso) di chi assiste. Oltretutto le terapie del dolore sono in grado di lenire abbastanza bene il male fisico senza addormentare del tutto il paziente. Del resto un grande poeta scrisse “non sono mai stato tanto attaccato alla vita” quando si trovava faccia a faccia con la morte.
- E i genitori, i fratelli, i parenti che comunque devono curare per tutta la vita queste persone?
Il mio cuore è pieno di volti di genitori e fratelli che testimoniano ogni giorno la gioia – sì, la gioia – di vivere, nonostante i problemi pratici e la responsabilità immensa che comporta un figlio o un fratello con handicap. Tra i primi che ho conosciuto, più di 30 anni fa, Francesco, il papà di Sabina: all’inizio non ha accettato la figlia, cieca, sorda, gravemente cerebrolesa. Anzi, per lunghi anni ha quasi cercato di ignorarla, allontanandosi il più possibile da lei, dalla famiglia e da Dio.
Poi ha incontrato delle persone (amici di Fede e Luce) che incredibilmente erano interessati a quella creatura, la portavano in giro, alle feste, a Messa… Gli è caduto il velo dagli occhi. Si è reso conto che anche Sabina poteva avere “una vita degna di essere vissuta”. Mi ha detto una volta: “Ringrazio Dio di avermi donato Sabina: mi ha dato più gioie e più soddisfazioni di un figlio normale”.
- Allora dobbiamo “sperare” di avere un figlio disabile?
Nessuno vuol dire questo. Anzi, soprattutto lo Stato e le Istituzioni dovrebbero assistere in modo più efficiente chi si trova obiettivamente in difficoltà, spesso grandi (in ogni ambito). Ma una società di persone “perfette” è assolutamente inconcepibile se non nella follia di menti votate alla cultura della morte. Dobbiamo riconoscere tutti il diritto alla vita di ogni essere umano, perché la vita è degna di essere vissuta, semplicemente perché è… Vita! E un figlio disabile non “è” un problema, è un figlio che “ha” un problema. E che può essere – come qualsiasi figlio – aiutato a risolverlo.
Ecco come si presenta il mio amico Alfredo (21 anni), un ragazzo eccezionale come tanti altri che conosco: “Ho fatto un corso d’informatica e ho preso un diploma della Regione; spero di trovare un posto di lavoro sempre nell’ambito del computer. Grazie all’associazione AIPD (www.aipd.it) ho imparato a essere autonomo. Vado agli Scout. Vado a fare acquisti, al cinema oppure a giocare al bowling. Prendo l’autobus o la metropolitana. Per diventare indipendente nella vita. Essere autonomi significa che noi ragazzi Down possiamo gestirci la vita e anche essere indipendenti. Per me essere Down significa che posso avere le chiavi di casa e questa è una cosa molto importante perché è una responsabilità”.
Francesco Agnoli