Non finisce più la carovana di sproloqui levatisi in occasione del Congresso Mondiale delle Famiglie, dipinto ormai come la fonte di una nuova emergenza democratica. Esponiamo qui una risposta a quel pensiero che sembra riunire in sé la sintesi delle accuse più stereotipiche rivolte al Wcf e alla cultura pro life e pro family che lo ha preparato.
Secondo il suddetto luogo comune, mentre i “tradizionalisti” vorrebbero riconoscere i diritti solo ad alcuni, perché interessati a conservare lo status quo, i progressisti lotterebbero per estendere i diritti a tutti perché – dice la vulgata – chi crede in un modello di vita è libero di seguirlo, ma perché impedire agli altri di vivere una vita diversa?
Ebbene, il motivo di questa accusa è il focus del Congresso di Verona sulla famiglia naturale che si vuole indicare come unica vera famiglia, differenziandola da qualunque altra unione (a fortiori tra persone dello stesso sesso) che famiglia non è – se non per la biologia, quantomeno per la Costituzione italiana. Sembra che qui si faccia finta di non ricordare che tutto ciò che riguarda la disciplina di matrimonio, famiglia, tutela della maternità, vita nascente, educazione dei figli, riveste un carattere eminentemente pubblico e riguarda per forza di cose tutti quanti. Facciamo un esempio: quando ci si oppone all’utero in affitto quale forma di mercimonio del corpo femminile e della stessa vita dei bambini concepiti tramite questa abominevole pratica, di certo si sta combattendo un (mal)costume che tocca nel profondo la vita di numerose persone; persone che sarebbero ben felici di usufruire di tale mercato, ma – siamo spiacenti – gli esseri umani non si compravendono, né si affittano, né si cedono in comodato. Questo significa andare a dire alla gente “come vivere”? Sicuramente. Si chiama “civiltà”, e nasce nel momento in cui gli individui, riuniti in società, stabiliscono delle regole per assicurare l’ordine delle relazioni.
A proposito di ordine e di relazioni, andiamo ora a recuperare i simpatici neologismi delle femministe di Non una di meno, che promettono di resistere ai «principali promotori della violenza eteropatriarcale e razzista», abili nel nascondere che «dietro all’appello alla famiglia naturale c’è la violenza: l’eterosessualità obbligatoria contro la libertà sessuale delle donne e delle soggettività Lgbt*Qqia+ che rifiutano di riconoscersi nelle identità prescritte e nei ruoli sociali imposti». So’ ragazze…
Anche qui ci prendiamo la briga di ripetere ad nauseam che la cosiddetta “eterosessualità” non la vuole “obbligatoria” il Congresso Mondiale delle Famiglie, bensì quella madre natura che – retrograda! – si ostina a far nascere o maschi o femmine.
Tutto questo per dire cosa? Che alla fine, dietro ogni posizione “politica” (nel senso lato e alto di ciò che riguarda la comunità) si staglia una precisa visione del mondo e della vita, una concezione profonda del senso di tutto ciò che ci circonda e, dulcis in fundo, del fine verso il quale ciascuno orienta la propria esistenza. È ridicolo accusare il ministro Bussetti, come pure è stato fatto, di partecipare al Wcf in qualità di ministro dell’Istruzione, perché la conoscenza e la ricerca dovrebbero essere “laiche e agnostiche” senza influenze politiche o religiose. Chi invoca la tabula rasa dei valori come garanzia d’imparzialità e di competenza, non sa che cosa dice: come se il conservatorismo o la fede religiosa potessero minare l’obiettività della scienza e il progressismo o l’ateismo ne fossero i custodi. La verità è che, come tutti i grandi temi che toccano la morale, e quindi la libertà, vita e famiglia sono e saranno sempre terreno di scontro fra opposte concezioni del bene e del male. La soluzione non è tirarsi indietro per essere super partes, ma scegliere di combattere dalla parte giusta.
Vincenzo Gubitosi