Troppi. Trentacinque anni dopo il varo della legge 194, sono ancora troppi. Gli aborti? No, gli obiettori. Così almeno la pensa un composito schieramento di sigle associative, sindacali e politiche che nel nome dei diritti e delle libertà individuali stanno reclamando a gran voce in questi giorni che venga limitato il ricorso all’obiezione di coscienza da parte di medici, anestesisti e personale infermieristico. Troppi obiettori – è il loro ragionamento – ostacolano e talvolta impediscono persino la possibilità di ricorrere all’aborto nei tempi previsti dalla legge, incentivando di fatto la scorciatoia della clandestinità e negando un diritto che sarebbe scritto nella legge (anche se, cifre ministeriali alla mano, quel 30% di medici italiani non obiettori dovrebbe essere più che sufficiente a garantire il servizio pubblico quand’è richiesto). L’allarme di questo fronte ostile all’obiezione, assai determinato e mediaticamente ben appoggiato, è tale che la Cgil ha presentato a gennaio un ricorso al Consiglio d’Europa contro il diritto codificato dall’articolo 9 della legge perché tutto l’onere degli aborti finisce per «ricadere su un numero di medici molto basso, per i quali si prefigura un rischio di limitazione della loro capacità professionale».
Che un sindacato si batta per limitare un diritto riconosciuto per legge ai lavoratori e fondato sulla Costituzione – come ha ricordato il Comitato nazionale di bioetica con un suo parere del luglio 2012 – è uno di quei paradossi che inducono inevitabilmente a pensare ad altri motivi alla base di un’iniziativa tanto strampalata (e che rischia di andare in porto se l’Italia non difenderà come deve un diritto costituzionalmente garantito: e qui si vedrà anche la qualità istituzionale del servizio reso dall’attuale signora ministro degli Esteri). Non è, infatti, il solo aspetto che stona in questo snodo eticamente e culturalmente nevralgico nella vita pubblica del nostro Paese. A preoccupare tutti – e non solo chi attacca un aspetto cruciale di una legge peraltro agitata spesso come un’intoccabile «conquista civile» – dovrebbe essere il fatto che non si riesce a prosciugare davvero il grande lago di dolore costituito dalle migliaia di aborti ancora praticati ogni anno in Italia (110mila nel 2011: un’intera città popolosa quanto Terni, Vicenza o Trento che manca all’appello in un solo anno). Né può bastare l’argomento del costante calo delle interruzioni di gravidanza: perché il vero diritto non è a comprare una pillola variamente abortiva, ma a poter accogliere e crescere i figli che si desiderano senza veder conculcato da qualunque causa il «diritto alla procreazione cosciente e responsabile» riconosciuto dalla stessa 194 nella prima riga dell’articolo 1.
Anziché dialogare costruttivamente insieme su come vedere finalmente stimato «il valore sociale della maternità» e tutelata «la vita umana dal suo inizio», come prescrive il primissimo comma della legge, ci si spende perché l’obiezione a una pratica con la quale si schiaccia una vita umana inerme venga limitata da qualche inimmaginabile cavillo, magari col bollo della burocrazia europea.
Non è una questione di “steccati”, ma di senso comune: che spazio, che valore, che significato vogliamo attribuire oggi nel nostro Paese alla vita di un bambino che con sé porta il solo diritto di nascere? E come possiamo non sentirci tutti mobilitati dal fatto che un numero crescente di aborti sia causato da ristrettezze economiche?
A 35 anni dal varo di una norma inevitabilmente associata al tragico bilancio di 5 milioni e mezzo di “vite mancate”, c’è chi insiste a spostare l’attenzione sui “nuovi diritti” non volendo vedere che ce n’è uno – elementare e universale – che li tiene in piedi tutti, e un altro – quello a esercitare una civilissima e laicissima obiezione a motivo delle proprie più profonde convinzioni, confortate da incontrovertibili evidenze della scienza – scolpito allo scopo di proteggerlo ricordando pubblicamente all’intera società che la vita resta sempre un valore primario. Proprio l’assedio ricorrente alla scelta degli obiettori rivela un deragliamento linguistico e semantico, che ha portato ad annoverare nella categoria dei diritti la facoltà di abortire, che diritto non è né può diventarlo, tentando di zittire l’obiezione di coscienza: la 194 infatti depenalizza in condizioni ben determinate e circoscritte una pratica letale, che resta sempre vietata al di fuori dei termini dettagliatamente precisati dal legislatore.
C’è nel cuore della nostra società una piaga ancora aperta, che è urgente ripulire e curare. Definirla un “diritto” talmente indiscutibile da oscurare tutti gli altri è un inganno, che finisce per alterare nelle coscienze la verità più semplice e solare che esista.
di Francesco Ognibene