L’avvenuta approvazione, da parte del Parlamento dello Stato dell’Oklahoma (Usa), di una legge volta a rendere un crimine l’esecuzione dell’aborto e a prevedere la revoca della licenza medica per chiunque vi prenda parte è stata ed è l’occasione – al di là del destino della norma, sulla quale il governatore, la repubblicana Mary Fallin, ha deciso di porre il veto – per tornare a riflettere su un versante bioetico controverso eppure di fondamentale importanza, vale a dire quello del legame fra il contrasto all’aborto volontario e la previsione di corrispondenti sanzioni.
E’ giusto che un ordinamento giuridico, proponendosi come fine quello di contrastare efficacemente la diffusione dell’aborto, stabilisca anche delle forme di pene per chi lo praticherà?
Non pochi sostengono che la previsione di una sanzione, una volta che l’aborto fosse dichiarato illegale, costituirebbe una misura non solo gratuita e non necessaria, ma addirittura persecutoria, in particolare nei confronti della madre; molto meglio – secondo costoro – sarebbe limitarsi quindi a contrastare la pratica abortiva e basta, escludendo a priori la dimensione sanzionatoria.
Ora, apparentemente convincenti questi argomenti rivelano in realtà una lacerante fragilità. Com’è infatti possibile convincersi che un fatto (l’aborto) sia un delitto, se poi chi lo compie sfugge ad ogni forma di sanzione? Quale il senso – e la credibilità, verrebbe da aggiungere – di un divieto la cui mancata osservanza non determina alcun tipo di conseguenze?
Scriveva in proposito il filosofo del diritto Mario Palmaro (1968-2014): “Il diritto ha un unico linguaggio: stabilire precetti e divieti, e presidiarli con una sanzione. Che potrà anche non essere il carcere, quando ragioni di umanità suggeriscono il ricorso a misure alternative. Ma la pietà non può fare velo alla necessità di tutelare un bene giuridico fondamentale come quello della vita umana. L’infanticidio è, ad esempio, un delitto che mette insieme una colpa oggettivamente gravissima e una condizione spesso fragilissima della madre colpevole. Eppure, nessuno ha proposto – almeno per ora – di depenalizzare questo reato. Ora, non è possibile tutelare la vita del concepito senza l’arma della minaccia sanzionatoria, pur nelle forme e nei modi più compatibili con la natura di questo delitto“.
Per quanto insomma la sanzione per il delitto di aborto costituirebbe – e costituisca – materia estremamente delicata, diviene difficile, pena la condivisione di una prospettiva contraddittoria, immaginare un divieto senza poi alcuna forma di conseguenza per chi lo trasgredisse. A coloro che, oltre a non essere convinti di questo, ribattessero che il solo rendere illegale l’aborto sarebbe inumano giacché metterebbe fortemente a rischio la salute delle donne, ricacciate nella clandestinità allorquando desiderassero rifiutare il figlio in grembo, conviene rammentare come sia stato dimostrato che un simile divieto non comporti alcuna maggiore mortalità materna (cfr. PLoS ONE 2012); non a caso in Irlanda, con detto divieto, si è registrata una bassissima di mortalità materna, addirittura la più bassa al mondo nel 2005 e la terza più bassa nel 2008.
L’aspetto delle mammane, dati alla mano, è dunque più incubo che realtà. Una ragione in più allora, per i pro-life, per battersi contro l’aborto non parzialmente e non all’insegna di una vaghezza, in fondo, molto politicamente corretta, bensì nella consapevolezza che si tratta di un delitto di assoluta gravità, che merita di essere combattuto apertamente, senza eccessi chiaramente ma senza neppure il timore di apparire impopolari.
Diversamente la battaglia per la vita continuerà ad essere portata avanti senza troppa efficacia, quasi fosse una priorità fra le tante e non, invece, quello che è: la madre di tutte le battaglie di civiltà, quella condotta in nome di chi non può parlare ma già esiste, ed è fra noi con un suo corpicino e una sua inalienabile dignità che non chiede nulla se non di essere riconosciuta nella sua dimensione innegabilmente umana.
Giuliano Guzzo
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