La presidentessa del Cile, Bachelet, sta cercando di reintrodurre la legalizzazione dell’aborto, dopo vent’anni.
Il popolo cileno, invece, è contrario. E in particolare le donne. Abbiamo più volte detto che la legalizzazione dell’aborto non migliora la salute femminile, anzi.
Il SIR ci informa che i Vescovi cileni hanno rilasciato una nota ufficiale in cui ribadiscono che, nonostante i casi previsti nella legge in discussione siano eccezionali e drammatici e riguardino “un dolore vissuto al limite”, “l‘aborto non comporta mai una cura da quelle esperienze traumatiche e non è mai terapeutico”.
Non è “aborto” l‘azione indirizzata a salvare la vita di una madre, quando non si procuri direttamente l‘eliminazione della vita del figlio.
In altri casi dolorosi, come nel caso della violenza sessuale, è lo Stato che dovrebbe avviare programmi di sostegno per accompagnare le madri colpite da queste dolorose situazioni: “non vogliamo aggiungere bimbi non ancora nati all‘elenco – non breve – di persone e gruppi che il Cile lascia ai margini e che, come segnalato da Papa Francesco, sembrano poter essere scartati”. Infatti, finora lo Stato non ha dato mai del denaro alla Chiesa, ma essa promuove, sostiene e gestisce innumerevoli attività di assistenza e solidarietà sociale, senza le quali la condizione del popolo cileno peggiorerebbero di molto.
Benedetta Frigerio, su Tempi, invece, ci parla della manifestazione delle “donne vestite di bianco”.
Salute materna da migliorare, operazioni clandestine rischiose da eliminare, privilegi dei ricchi da annullare. Esattamente con gli stessi argomenti usati 50 anni fa, il Cile è riuscito a portare in Parlamento un disegno di legge che prevede la legalizzazione dell’aborto.
La maggioranza del paese è ancora antiabortista, così, visti i fallimenti dei passati tentativi, la presidentessa socialista Michelle Bachelet ha cercato di legalizzare la pratica presentando il testo come “soft”.
L’aborto potrà essere praticato solo entro la dodicesima settimana, quando è a rischio la vita della madre, per gravidanze conseguite a stupri e in caso di malformazioni del nascituro.
L’ampio fronte del “no” è stato subito definito da Bachelet come quello dei cattolici reazionari. Ma l’opposizione si è mostrata lontanissima dal cliché progressista: «Ho abortito quando avevo 19 anni», ha dichiarato all’Aci María Zamorano Valenzuela, una delle centinaia di donne vestite di bianco che il mese scorso hanno cominciato a invadere le piazze di Santiago del Cile. Ferme, in silenzio, le “Mujeres de Blanco” hanno dato vita davanti alla residenza del presidente della Repubblica a una forma di protesta di grande impatto.
Tenevano in mano una scatola bianca con una croce e sopra scritto il nome del bambino abortito, mentre al centro della piazza tre ballerine vestite di rosso danzavano. «Si tratta di un’azione di luce. Il nostro obiettivo è la luce, che in ultima analisi è la verità, il suo splendore», ha spiegato Paz Vial, una delle ideatrici della manifestazione.
«La verità deve emergere perché altrimenti appare tutto informe, torbido e oscuro (…). Secondo Bachelet un terzo delle donne sperimentano una qualche forma di violenza sessuale o psicologica. Beh, crediamo che non ci sia violenza peggiore di quella che subisce una donna quando è spinta a uccidere il figlio in grembo».
Anche per questo le donne hanno scelto di rappresentare con le scatole le bare, senza nascondere «la verità: che l’aborto è la morte di un innocente, una morte bianca. E ogni donna che ha abortito, ha il diritto alla verità e alla speranza. Ma non ci può essere alcuna speranza fondata su una menzogna».
Come dimostra la partecipazione alla protesta di chi è pentito di aver abortito: «Stavo molto male e nessuno mi ha aiutata. Sono andata a cercare aiuto presso l’ufficio comunale e sono stata trattata molto male, così ho scelto quella che mi sembrava la via più facile. E ho pagato un caro prezzo, un dolore da cui non mi separerò mai», ha affermato Valenzuela.
Vial ha quindi aggiunto che «la verità non schiaccia né condanna, ma permette l’inizio di una nuova vita». Fra le donne vestite di rosso c’era invece Ana Maria Vela, che ha spiegato di aver ballato rappresentando un feto. Mentre una passante ha reagito così: «Se mia figlia fosse violentata e rimanesse incinta, vorrei sostenerla e chiederei il carcere per lo stupratore, non la morte per un bambino innocente».
Benedetta Frigerio