8 marzo “Festa” della donna? Secondo il calendario, indubbiamente sì. Che però ci sia veramente qualcosa da festeggiare, a ben vedere, appare oggi quanto meno dubbio. Sì, perché proprio in una fase storica in cui «i diritti» sono quotidianamente protagonisti dell’agenda politica, viene il dubbio che la donna – anch’essa, almeno a parole, celebrata come non mai – non sia, nei fatti, così non solo festeggiata, ma neppure rispettata. Gli elementi che vanno in questa direzione paiono purtroppo molteplici.
In primo luogo, ci sono da registrare forti criticità in relazione alla nascita e, precisamente, al fatto che alle donne, a causa dell’aborto selettivo, viene sempre più spesso impedito di nascere. Alla luce d’uno studio pubblicato nel 2019 sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, che ha considerato i dati di 202 Paesi dal 1970 al 2017, si può stimare con un buon grado di probabilità che, nel mondo, manchino all’appello ben 27 milioni di giovani donne, la gran parte cinesi ed indiane, anche se gli esperti assicurano che l’aborto selettivo non è assente neppure in Occidente, Europa ed Italia.
Analogamente, viene da chiedersi se l’8 marzo vi sia qualcosa da festeggiare considerando l’atteggiamento che, per rimanere al nostro Paese, lo Stato ha nei confronti delle donne in gravidanza difficile o indesiderata. Sì, perché a costoro, come noto, da un lato viene offerto l’aborto gratuito – intervento che ai contribuenti costa dai 1.000 ai 2.000 euro -, ma, dall’altro, se queste stesse gestanti decidono, nonostante le difficoltà, di tenere il loro bambino vengono loro offerte poco più che elemosine. Il che, sempre a proposito di «diritti», dovrebbe far pensare.
Allo stesso modo, deve far pensare un altro bivio davanti alla quale la donna, anche in Italia, viene sempre più a trovarsi: quello tra famiglia e lavoro. Come se non ci potesse essere una compatibilità tra le due cose e la maternità fosse quasi una sorta di colpa; eppure è questo l’atteggiamento che prevale in non poche situazioni e che dura da tempo. Basti pensare a cosa riferiva Il Messaggero in un articolo uscito addirittura già nell’ottobre del 1997, a proposito di una indagine conoscitiva dalla quale emergeva come ad oltre 100 donne, in Italia, fosse richiesta addirittura, prima di procedere con l’assunzione, la certificazione di avvenuta sterilizzazione.
Ecco che allora, nel tempo dei «diritti», la donna subisce almeno una triplice discriminazione: prima della nascita – non di rado abortita in quanto femmina -, durante una gravidanza difficile – lasciata spesso sola, salvo che non consideri di abortire – e in generale se decide di diventare madre, sogno seguendo il quale rischia di vedersi chiudere davanti a sé ogni progetto lavorativo. E pensare che ai vertici della stessa Ue viene un esempio che meriterebbe, rispetto a tale aspetto, di essere valorizzato: quello della Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, senza dubbio donna molto affermata e, al tempo stesso, madre di sette figli.
Perché non ricordare, sulla scorta di tali ed altri esempi analoghi (come Amy Coney Barrett, giudice della Corte suprema Usa e madre di sette figli), che si può essere donne professionalmente di successo e anche madri? Perché non investire, insomma, culturalmente ed economicamente sulla conciliazione tra famiglia e lavoro? Pare davvero il caso di chiederselo. Così come, per tornare all’8 marzo, vale la pena domandarsi se non sia ipocrita celebrare la festa della donna in un contesto storico in cui di donne, di fatto, non si può neppure più parlare; ma sì, proprio così.
Resta tristemente emblematica, a questo proposito, la scelta di The Lancet, rivista scientifica di livello mondiale – tra le tre migliori in assoluto - con quasi 200 anni di storia, la quale pochi mesi fa ha sostituito, in un suo articolo in prima pagina, la parola «donne» con la bizzarra ed offensiva espressione «corpi con le vagine». Una decisione figlia della necessità di evitare accuse di “transfobia” ormai quanto mai difficili da dribblare. Si pensi al caso, già ricordato su questo sito, della parlamentare norvegese Jenny Klinge, la quale tempo fa aveva semplicemente affermato che «solo le donne possono partorire», e per questo è stata segnalata alle autorità.
Alla base della denuncia, come aveva spiegato la femminista Marina Terragni, una nuova legge che, riconoscendo l’identità di genere, fa sì che si possa essere nate donne ma percepirsi maschi; ne consegue come l’affermazione della Klinge ricada nella casistica del misgendering, configurandosi come «crimine d’odio». Inevitabile, a questo punto, porsi una domanda: seriamente, che senso ha festeggiare l’8 marzo in una società in cui le donne vengono spesso abortite, lasciate sole nel corso di una gravidanza difficile, licenziate o non assunte se madri e addirittura cancellate sotto il profilo terminologico? Meglio chiederselo perché il confine tra la festa e la beffa, a quanto pare, si sta facendo pericolosamente sottile.