22/08/2024 di Fabio Piemonte

L’ideologia femminista e la bellezza autentica delle donne

Nel recente saggio dal titolo ironico Presidenta anche no! Resistere al fascino del neo femminismo Raffaella Frullone - giornalista di Tv2000 e InBlu2000 e collaboratrice del mensile Il Timone - decostruisce l’ideologia femminista, rivelandone le contraddizioni interne, e offre al gentil sesso preziosi spunti per riscoprire la bellezza autentica della propria identità di donna.




Resistere al fascino del neofemminismo si può. È la buona notizia per il gentil sesso che traspare dalle pagine del recente saggio Presidenta anche no! di Raffaella Frullone, giornalista bergamasca di Tv2000 e InBlu2000 e collaboratrice del mensile Il Timone. Nel volume la Frullone decostruisce l’ideologia femminista, rivelandone le contraddizioni interne, e offrendo alla donna preziosi spunti per riappropriarsi pienamente della sua identità, un’identità femminile costantemente deturpata dalla cultura mainstream e dal “politicamente corretto”.

«La questione femminile è una questione “di genere”, come va di moda dire oggi, oppure è una questione politica?», si chiede provocatoriamente la giornalista bergamasca. E in effetti la risposta sembra più propendere per la seconda opzione; basti pensare al fatto che non vi è stato alcun corteo celebrativo a Roma o altrove in Italia all’indomani dell’elezione di Giorgia Meloni quale prima donna presidente del Consiglio nella storia della Repubblica. 

Nata all’inizio degli anni Ottanta in un paese di 5.000 abitanti della provincia di Bergamo, l’autrice ricorda che «all’epoca non esistevano le campagne per i giocattoli “liberi dagli stereotipi”, esistevano i bambini che giocavano con quello che volevano e molto spesso con quello che avevano, magari ereditato da fratelli o sorelle». Di qui confessa che, seppur non le piacessero particolarmente bambole e pentoline, nessuno ha mai pensato che necessitasse di uno psicologo. All’asilo poi aveva un’etichetta con la cazzuola, «attrezzo familiare in una provincia dove l’edilizia aveva e ha ancora un peso rilevante, lavorativamente parlando», quale contrassegno identificativo degli oggetti di sua proprietà, sebbene «la mia maestra non fosse un’avanguardista nella “lotta alle discriminazioni di genere”, solo non c’era l’abitudine di crearsi problemi inesistenti». Indugiando su particolari biografici con ironia e nel contempo senza mezzi termini, la Frullone sottolinea innanzitutto il tentativo ideologico diffuso della cultura attuale di voler cambiare la realtà a colpi di linguaggio. Infatti tra le idee bizzarre prive di fondamento del “politicamente corretto” vi sono le proposte «di tetti di cristallo da sfondare a suon di asterischi, di autodeterminazione, di bambole da non regalare alle bambine per evitare che crescano intrappolate in stereotipi che le confinino dentro casa a crescere pargoli e sfornare crostate». Eppure non sembra che alle donne sia precluso l’apice della carriera professionale, se si considera che «Ursula von der Leyen è presidente della Commissione europea, Roberta Metsola è presidente del Parlamento europeo, Kamala Harris è vicepresidente degli Stati Uniti d’America, Christine Lagarde è presidente della Banca centrale europea». 

 

Il “sessismo” linguistico e la propaganda mediatica

Secondo l’ideologia femminista e transfemminista dominante, la prima forma di sessismo, e dunque di discriminazione nei confronti delle donne, consiste proprio nell’uso del linguaggio. Ne scaturiscono però una miriade di contraddizioni: da un lato si propone di togliere l’articolo determinativo davanti ai cognomi femminili, rendendo così di fatto paradossalmente più difficile l’identificazione del sesso della persona di cui si parla; dall’altro invece si pretende di declinare al femminile le professioni. Come se non bastasse, nella Babele linguistica, «a un certo punto è arrivato l’asterisco egualitario», poiché i generi non sono soltanto due ma almeno 58, dunque piuttosto contratti nella sigla Lgbtqi+ che, mediante il “plus” finale, cerca di non tagliare fuori nessuno perché nessuno possa sentirsi escluso. Per superare il binarismo ed elaborare un linguaggio ancor più inclusivo già nel 2015 «Luca Boschetto, anima del sito italianoinclusivo.it», aveva approntato la soluzione: la schwa, ossia una “e” capovolta (ə) «da pronunciare con la bocca in posizione rilassata, semiaperta. È il suono iniziale dell’inglese about», rileva nel merito la Treccani. E ancora in Svezia si è introdotto il pronome neutro hen; in Francia il dizionario Petit Robert ha accolto il pronome iel. Tutto sempre all’insegna della gender equality al centro delle agende politiche degli organismi internazionali.

L’ideologia femminista viene poi costantemente diffusa dai media, attraverso narrazioni spesso inventate di sana pianta, in specie nelle pagine patinate delle riviste al femminile. «Raccontavo bugie su bugie per vendere lo stile di vita del sesso occasionale a milioni di donne single lavoratrici. Sono stata uno dei soldati di quell’esercito che ha convinto le donne del fatto che l’idea del lavoro duro e del sesso fuori del matrimonio le avesse rese libere. Abbiamo esortato la donna single a lasciar andare via la sua “colpa” (ossia le sue preoccupazioni morali) e ad andare a letto con qualsiasi uomo le piacesse, anche se era sposato. Per anni e anni abbiamo raccontato migliaia di queste donne “libere” come se esistessero realmente. Tra il 1970 e il 1999 la percentuale di coppie non sposate che convivevano era aumentata di oltre sei volte. Ecco cosa significa una propaganda abilmente realizzata per cambiare gli atteggiamenti e la vita delle persone. La finzione era diventata realtà», ammette la giornalista Sue Ellen Browder che ha scritto per tanti anni per Cosmopolitan. Alla Browder si deve anche il famoso slogan: «Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive ovunque». Le donne venivano così invitate a vivere con leggerezza la dimensione sessuale e a «consumare prodotti di bellezza - make up, abiti, accessori e scarpe - per rendere la donna sempre più oggetto del desiderio». 

 

La favola illusoria della ‘libertà sessuale’

L’emancipazione della donna deve passare per la sua libertà sessuale. Così decide l’ideologia al potere, ancor prima delle femministe. Ecco allora film, canzoni, tv e serie televisive - da Beautiful a Beverly Hills 90210, da Will & Grace e Sex and the City alla «pornografia dei sentimenti» di Uomini e Donne - pronti a veicolare il falso mito della donna “liberata”.

Alla falsa libertà ha inneggiato dal palco del Festival di Sanremo 2023 anche Chiara Ferragni, a partire dallo slogan “Pensati libera” cucito sulla stola bianca di uno dei suoi abiti e divenuto tristemente celebre. Una libertà menzognera e illusoria che, in nome della “lotta al patriarcato”, propaganda i “diritti riproduttivi”, alla quale l’influencer ha fatto riferimento attraverso la collana con la rappresentazione di un utero; una libertà menzognera e illusoria che in nome dell’emancipazione della donna dal ruolo impostole dalla società, arriva perfino a suggerire a una madre di eliminare il bimbo in grembo, sebbene con l’aborto ferisca poi tragicamente e irrimediabilmente anche se stessa. Si pensi ancora a un altro tragico paradosso, ossia a quante bambine sia stato impedito di venire alla luce in nome dei diritti della donna, anche nel nostro Paese, non solo in Cina e in India dove ciò è avvenuto in maniera scientemente programmata con l’aborto selettivo di Stato. E in effetti «l’unico autentico “femminicidio” - osserva l’autrice - quale uccisione di una donna in quanto tale, è proprio l’aborto selettivo».

Tra i nuovi diritti alla salute riproduttiva rientrano sicuramente anche il più faticoso percorso per la fecondazione artificiale e il più piacevole “social freezing” - decisamente oneroso ma parimenti inaccettabile sul piano etico -, ossia la crioconservazione a 196 gradi sotto zero dei propri ovociti, il cui costo «può arrivare fino a 25.000 euro», al fine di procrastinare il momento della maternità, «nell’illusione di poter manovrare concepimento e fertilità a piacimento». Ma se la fisiologia della donna ha i suoi tempi e ritmi biologici che bisogna assecondare una ragione c’è. Di qui la promessa della “maternità a comando” diviene un sogno infranto con morti e feriti descritto con dovizia di particolari per stomaci forti dalla scrittrice Antonella Lattanzi nel recente romanzo Cose che non si raccontano. In esso ripercorre quanto accadutole, dall’iperstimolazione ovarica alla gravidanza trigemellare, dalla “riduzione” di una delle tre figlie, alla tragica morte in grembo all’indomani anche delle altre due sorelline. Nel commentare la vicenda, la Frullone osserva acutamente: «Antonella Lattanzi ha solo avuto il merito e il grande coraggio di raccontare senza veli il suo percorso, e non è poco, perché molte delle donne che passano per questo travaglio si vergognano di aver creduto a certe favole e semplicemente tacciono. Tacciono piangendo la notte mordendo il cuscino perché pensano che nessuno possa davvero comprenderle. Tacciono perché dopo vent’anni di pillola anticoncezionale, alla soglia dei quaranta, si rendono conto che non è così facile rimanere incinta. Tacciono per i multipli aborti, per il senso di colpa, il rammarico, il rimpianto. Tacciono perché hanno fatto uno, due, tre tentativi di procreazione medicalmente assistita e si sentono esauste, svuotate e per giunta sono senza il bambino che era stato loro promesso. Tacciono pensando ai bambini che avrebbero potuto avere se non li avessero evitati con lo strumento, la pillola, che doveva “liberarle”».

In difesa della “libertà” di svendere e disporre come si vuole del proprio corpo e della propria dignità c’è poi sia la «prostituzione virtuale legalizzata» di Onlyfans, sia la possibilità di vendere servizi legati alla maternità surrogata, rispetto alla quale la Frullone si domanda con ironia: «Se è vero che un bambino può stare senza la mamma, se “basta l’amore”, allora perché due adulti non possono stare senza un bambino? Non “basta l’amore” in quel caso?». L’utero in affitto è in realtà un’altra barbara forma del traffico di essere umani; spesso la donna gestante è tenuta all’oscuro persino del sesso del nascituro e costretta in alcune cliniche perfino a fare un’ora di psicoterapia per imparare a distaccarsi dal figlio che lei stessa ha generato al momento del parto.

 

Femmine contro maschi

Dal 2014 esiste una “Giornata del padre anonimo” «che ha dato voce a un popolo che ogni anno nei soli Stati Uniti conta tra i 30.000 e i 60.000 nuovi nati». Sono il frutto di semi “donati”, o meglio venduti, figli ai quali viene brutalmente negato per privacy il diritto a conoscere le proprie radici, ovvero chi sia il proprio padre biologico, in nome di una tecnocrazia spietata posta al servizio del femminismo. Si vuole dunque intenzionalmente che il padre scompaia; lo si denigra evidenziandone la “mascolinità tossica” (abbiamo trattato questo tema e quello della virilità maschile anche recentemente, in particolare nei numeri 126 e 129 della nostra Rivista), lo si sminuisce anche nell’atto di dare il suo cognome al figlio - che allude a un’assunzione pubblica di responsabilità nei confronti di una nuova vita - da quando c’è la possibilità per i neonati del “doppio cognome”. E in effetti «l’esito più infausto del pensiero femminista è stato quello di riuscire a minare un’alleanza, quella tra uomini e donne, e di aver fatto in modo che i due sessi si guardassero in cagnesco, si misurassero l’un l’altro come ci si misura sul posto di lavoro, in attesa di un passo falso, che prima o poi fisiologicamente arriva. Ma la vita non è una eterna competizione di maschi contro femmine, al contrario è un gioco di squadra dove se uno dei due sessi perde, perdono tutti. E infatti abbiamo iniziato a perdere quando la bussola di ciascuno è diventata il benessere personale e non più il sacrificarsi per l’altro, per il bene della squadra».

 

Dal femminismo al transfemminismo

Le femministe sono ormai un retaggio del passato; l’ideologia oggi dominante è quella transfemminista che promuove ed esalta la fluidità di genere. A tal proposito la Frullone riprende l’ultima definizione di donna offerta dal Cambridge Dictionary quale «adulto che vive e si identifica come femmina anche se può aver avuto un altro sesso alla nascita». 

Se donne non si nasce ma si diventa, ecco una rassegna di episodi di cronaca che descrivono alcune tappe dell’iter ideologico dal femminismo al transfemminismo: il trans divenuto “Miss Olanda 2023”; le vittorie discutibili di uomini sedicenti donne nelle competizioni sportive; i «corpi mutilati» dei tanti minori vittime del ritenersi nati in un corpo sbagliato; le storie drammatiche dei “pentiti” della transizione di genere, quei “detransitioners” che sperimentato le tragiche ricadute dell’ideologia di genere sulla propria pelle con ripercussioni irreversibili sulla loro salute fisica e psichica (di cui abbiamo ampiamente documentato in particolare nel numero 119 della nostra Rivista). E se dopo decenni di politiche scellerate all’insegna della gender equality Regno Unito, Stati Uniti d’America e Svezia stanno cominciando tra gli altri a fare marcia indietro, in Italia - come pure a più riprese abbiamo denunciato anche attraverso petizioni dedicate - prende invece piede la “carriera alias” nelle scuole, per cui si assiste al paradosso che a minorenni cui viene ancora doverosamente richiesta la giustificazione da parte del genitore nel caso di un’assenza si offra nel contempo la possibilità di scegliere un nome differente da quello anagrafico secondo il proprio gusto e a prescindere dall’opinione di mamma e papà. In tale prospettiva famiglia queer e poliamore costituiscono le ultime frontiere del transfemminismo, purché la marcia per lo «svilimento culturale del valore della famiglia e della maternità» prosegua inarrestabile.

 

La vocazione autentica della donna

Eppure vi sono spose e madri che, se potessero davvero scegliere con libertà tra carriera e famiglia e non perché spinte da ristrettezze economiche o necessità, sceglierebbero con grande gioia di dedicarsi a tempo pieno a marito e figli. Si tratta di «donne che non vorrebbero aiuti per trascorrere più ore fuori casa, ma li vorrebbero per poter trascorrere più ore dentro casa, vorrebbero un congedo di maternità più lungo, possibilmente pagato quel minimo che consenta di mettere insieme il pranzo con la cena, più permessi, un orario flessibile da poter gestire a misura di famiglia». Tuttavia un sistema economico basato esclusivamente su produttività e profitto lascia purtroppo scarso margine a tali opportunità di conciliazione tra lavoro ed esigenze familiari, anzi troppo spesso penalizza le donne che non si adeguino alle sue logiche.

Si tratta allora di valorizzare «il genio della donna», per dirla con san Giovanni Paolo II, e di riscoprire la sua «capacità unica di resistere alle avversità, di rendere la vita ancora possibile pur in situazioni estreme, di conservare un senso tenace del futuro e, da ultimo, di ricordare con le lacrime il prezzo di ogni vita umana», come rileva Benedetto XVI. In questo modo la donna può ricostruire «un’alleanza del tutto nuova con l’uomo, per star dentro questo tempo in un modo nuovo, un modo che non passa dalle rivendicazioni e non si misura in termini di potere e guadagno, o benessere personale, ma sul bene che possiamo generare, anche col sacrificio, che rende sacro ciò che facciamo». È in tale dimensione che risiede infatti il segreto profondo e il significato autentico della bellezza della donna incarnato in modo mirabile dalla Vergine Maria. «È Lei la più rappresentata in assoluto nell’arte, la più cantata nella musica, la più modellata nella scultura»; a Maria sono stati dedicati in assoluto più edifici, e non solo chiese e santuari. E in effetti «non c’è stata una generazione che non l’abbia venerata da duemila anni a questa parte». Vergine, sposa, madre e umile ancella, Maria è il vero modello di ogni donna, nella misura in cui consente di «leggere la storia non più in termini di potere e dominio, ma in termini di amore e servizio. Così lei è Regina».

 

articolo a firma di Fabio Piemonte, già pubblicato su Notizie Pro Vita & Famiglia n. 130 di giugno 2024

 

 

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