La guerra in Ucraina, ormai lo sappiamo e lo vediamo ogni giorno, ha dei risvolti sempre più drammatici: milioni di profughi, gente che ha letteralmente perso tutto, mamme e bambini separati da mogli e papà, anziani che non hanno potuto fuggire e faticano ora a sopravvivere. Ne consegue come i versanti sui quali impegnarsi per sostenere il popolo ucraino siano davvero molteplici e tutti urgenti; ma tra questi, ovviamente, l’aborto non c’entra nulla.
Eppure, c’è ancora chi arriva ad approfittare di una simile situazione, così sconvolgente, per portare avanti – ovviamente ammantando di umanità la propria azione – un’agenda di tipo abortista. È il caso della surreale Call to Action – espressione derivata dal marketing per designare una «chiamata all’azione», ossia per sollecitare un agire immediato – promossa da varie organizzazioni, tra cui Amnesty International, il Center for Reproductive Rights, International Planned Parenthood Federation e Women's Link Worldwide, e rivolta ai governanti di tutta Europa e non solo.
Il cuore di quest’appello alla mobilitazione appare semplice e consiste nella promozione dell’accesso all'aborto e dell'intera agenda per la salute e i diritti sessuali e riproduttivi (Srhr). A partire dal tema, evidentemente impiegato come pretesto, della «salute e dei diritti sessuali e riproduttivi di donne e ragazze e delle popolazioni colpite dal conflitto in Ucraina», viene chiesto ai leader occidentali e in particolare europei di rimboccarsi le maniche fornendo alle gestanti ucraine tutto il necessario, «a cominciare dai kit per la salute riproduttiva che includono mifepristone e misoprostolo per l'aborto». Tutto chiaro?
Ci sono migliaia e migliaia di giovani donne in fuga dalla guerra – e già desiderose, come molte toccanti testimonianze mostrano, di far rientro nelle loro comunità – e ciò che Amnesty International e soci riescono a dire, in questa fase, è: più aborto per tutte, magari anche attraverso la Ru-486. Non è finita. Nel testo di questa Call to Action si trovano surreali inviti a sostenere economicamente alcune organizzazioni e a smettere di finanziarne altre. La richiesta è infatti che, da una parte, «l'assistenza finanziaria non sia fornita alle organizzazioni e agli attori anti SRHR e anti-egualitarie in Ungheria, Moldova, Polonia, Romania, Slovacchia o Ucraina», e, dall’altra, si foraggino «quelle organizzazioni per l'uguaglianza di genere, SRHR e per i diritti delle donne che stanno fornendo protezione in prima linea».
Quale tipo di «protezione» è facilmente desumibile, anche qui, da un banale conteggio, ossia il notevole numero di volte – dodici! – in cui, in sette pagine di documento, ricorre la parola «aborto». Ci sarebbero altre considerazioni da svolgere – per esempio il modo con cui nel testo ci si rivolge agli esecutivi di Ungheria, Moldova, Polonia, Romania e Slovacchia, con toni ben poco rispettosi delle sovranità nazionali di questi Paesi –, per non parlare poi degli insistiti richiami alla cosiddetta «contraccezione di emergenza», elevata ad «assistenza sanitaria essenziale che dovrebbe essere fornita gratuitamente».
Insomma, ci troviamo dinnanzi al solito trito e ritrito repertorio argomentativo abortista che, se già appare criticabile in quanto tale, spolverato in questi giorni e peraltro con una simile veemenza – come se, lo si ripete, il primo problema delle sfollate ucraine fosse ora abortire – la dice lunga rispetto a quali livelli di strumentalizzazione, pur di portare avanti la loro agenda, siano capaci di arrivare certe organizzazioni. Non resta quindi che denunciare tutto questo, facendo presente che l’aborto non è mai la risposta giusta ad una gravidanza difficile o indesiderata; e se non lo è mai quando c’è la pace, figurarsi in tempi di guerra.