A Bergamo, dopo l’approvazione della commissione, è nei giorni scorsi arrivata anche quella del Consiglio comunale. Parliamo della "La Carta dei diritti della bambina", un documento a prima vista più che condivisibile ma, nei fatti, contrassegnato da aspetti che oscillano tra l’ambiguo e il preoccupante. Vediamo perché, non senza aver fatto una premessa. Questa "Carta" non nasce affatto a Bergamo e neppure in Italia, essendo un documento presentato e approvato anzitutto al IX Congresso della Federazione Europea BPW Business Professional Women tenutosi a Reykjavik nell’agosto del 1997, organizzato dalla International Federation of Business and Professional Women, Ong che lavora in collaborazione con le Nazioni Unite per la parità di genere.
Si tratta in buona sostanza di una realtà femminista, quindi ideologicamente molto connotata - e non certo, al di là delle apparenze, a favore delle donne. A dimostrarlo, a ben vedere, è la stessa "Carta dei diritti della bambina", che presenta diversi elementi critici.
Il più lampante sta nell’articolo numero 6, che sancisce il diritto «di ricevere informazioni ed educazione su tutti gli aspetti della salute, inclusi quelli sessuali e riproduttivi, con particolare riguardo alla medicina di genere per le esigenze proprie dell’infanzia e dell’adolescenza femminile». Si tratta di un bel giro di parole che sostanzialmente significa una cosa sola: promozione di aborto e di contraccezione. Come ciò possa rappresentare un diritto - e per di più un diritto della bambina -, è un mistero che solo gli estensori della "Carta", forse, potrebbero chiarire. Ma non è finita, perché in poche righe tale scritto presenta anche un incredibile paradosso.
Già, perché il secondo articolo del documento stabilisce l’impegno ad evitare alle bambine «l’imposizione di pratiche culturali»; laddove – questo non è esplicitato ma risulta comunque lampante – per pratiche culturali si debbono intendere le bambole, i giochi tradizionalmente femminili e il colore rosa. Tutte cose ritenute sessiste e utili solo a perpetuare una mentalità patriarcale e sessista; quando invece le uniche cose «culturali imposte», a ben vedere, sono le idee di una "Carta dei diritti della bambina" impregnata di abortismo e femminismo che, come noto, sono due facce della stessa mortifera ideologia ostile alla vita e alla famiglia.
Più che comprensibile, quindi, la netta presa di posizione di ProVita Bergamo, che ha con decisione condannato l’approvazione di un documento che, di favorevole ai diritti della bambina, non ha propio nulla e che potrebbe, a questo punto, trovare diffusione nelle scuole cittadine.
«Apprendiamo con dispiacere che un tema tanto encomiabile come educazione al rispetto e il contrasto delle violenze», recita la nota stampa di ProVita Bergamo, «sia foriero di ideologie, che all'interno della scuola, con il pretesto di aiutare le bambine di Bergamo ad essere meno stereotipate, vede diffondersi di un supporto di informazioni legato alla bambina». Il gruppo pro life non ha comunque intenzione di arrendersi ed annuncia battaglia: «Continueremo a vigilare perché venga richiesto il consenso informato preventivo dopo dettagliata informazione, come da circolare del MIUR, troppe volte disattesa sul nostro territorio. Saremo sempre accanto alle famiglie!».
Un comunicato battagliero e deciso, dunque, che tuttavia non riesce ad eliminare la tristezza nel vedere con quanta e quale ostinazione si continui a perseguire – anche a livello locale, evidentemente – quella che è tutti gli effetti una politica di indottrinamento gender a scapito dei minori, in questo caso addirittura delle bambine, le più indifese di tutte. Un’ottima ragione, seguendo l’esempio di ProVita Bergamo, per gridare la propria indignazione e vigilare con accresciuta attenzione su quanto rischia di circolare nelle scuole.
di Giuliano Guzzo