Salvare la vita di un bambino è anche salvare una donna da un trauma che si porterebbe dentro per sempre
Una volontaria dell’associazione Onora la vita (www.onoralavita.it) e dell’Associazione mai nati (www.associazionemainati.it), che lavora con i CAV in diverse città del nord Italia, ci parla di alcune delle sue esperienze.
“E’ una fredda mattina di marzo a Torino e, con Anna Maria Meroni e alcuni colleghi, sto distribuendo volantini anti-aborto di fronte all’Ospedale Sant’Anna, che porta il nome della mamma di Maria, patrona delle partorienti.
Come da triste e conclamata usanza, da 34 anni, sulla parte destra del padiglione si può accedere all’eccellenza delle cure; 20 metri a sinistra, nella sala antistante l’ingresso, siedono in attesa le donne che hanno deciso di “interrompere” la gravidanza: come se la vita di un bimbo si potesse interrompere e poi riprendere, come quando arriva un black out. Un raccapricciante “distributore di numeri”, identico a quelli delle macellerie e dei supermercati, è parte del triste e nudo arredamento del “salotto della morte”.
I volontari per la vita non hanno libero accesso in questi luoghi. Riusciamo a passare solo perché troviamo una persona amica di servizio in portineria.
Dalla scalinata scendono famiglie felici con i neonati teneramente stretti al cuore, neo-padri imbarazzati che li tengono in braccio con la delicatezza dovuta ad un prezioso e fragile gioiello: un figlio.
D’un tratto, vedo entrare una donna di colore: gli occhi esprimono l’immanenza di un dramma che si sta per compiere. Mi avvicino, siedo accanto a lei, le sorrido accarezzandole una mano: “What’s your name, my dear? Where are you from?”- “I’m from Cameroun” è la risposta. “What’s your problem?” ... Mi racconta le sue pene: vuole abortire perché ha già dei figli e l’economia familiare non ne consente un altro. “And your husband?“ domando. Mi risponde che il marito non è d’accordo e che sono cattolici. Le offro l’aiuto economico del Centro di Aiuto alla Vita più vicino a casa sua, ma non basta a convincerla.
Devo riuscire a fare breccia nel suo cuore di mamma cattolica.
La intrattengo mostrandole le immagini del bimbo che si sviluppa nel ventre materno e d’un tratto, ecco lo Spirito Santo viene e mi suggerisce le parole giuste: penso all’Eccomi di Maria nel momento in cui l’Arcangelo Gabriele le comunica che diverrà la Madre di Gesù, traduco brevemente le frasi del Vangelo lucano concludendo: “Che sarebbe stato di noi se Maria avesse risposto di no?”
Un raggio di luce traspare dagli occhi della donna che finalmente mi sorride, telefona all’angosciato marito la sua decisione.
Poi mi abbraccia e, letteralmente, scappiamo giù dalla scalinata, fuori dal “salotto della morte.” Il bimbo è nato felicemente.
In altre circostanze non è stato così semplice: la vita riserva spesso una tragedia in più, dietro la scelta tragica di uccidere un figlio. Per esempio per salvare il terzo figlio di una giovane il cui compagno si trovava nei guai con la giustizia, ho dovuto passare una intera estate tra ospedale e carcere. Perché era necessario farle sentire la nostra totale condivisione, vicinanza: in molti casi non è sufficiente l’aiuto economico. E poi le donne inviate ai CAV non vengono abbandonate dopo la nascita dei bimbi salvati: la mia relazione con le mamme affidatemi prosegue tuttora, anche a distanza.
Nella vita, come nel volontariato, la riuscita delle nostre azioni dipende soprattutto dall’amore, dalla passione, dalla fede che ci mettiamo. E, ovviamente, dall’aiuto della Divina Provvidenza.”
di Anna Maria Pacchiotti