Cognome paterno retaggio patriarcale? Ne è convinta la Corte Costituzionale che, con una specifica ordinanza in replica al Tribunale di Bolzano, ha adombrato l'idea che il solo cognome paterno dato ai figli costituisca, appunto, il retaggio di una concezione della famiglia patriarcale. Nello specifico, la Consulta è intervenuta in risposta al tribunale altoatesino, che chiedeva lumi sulla costituzionalità della norma - l’articolo 262 del Codice civile - nella parte in cui non prevede, dato l'accordo tra i genitori, la possibilità di dare al figlio il cognome della madre invece di quello paterno.
Conseguentemente, l’attuale sistema di attribuzione del cognome paterno ai figli è stato giudicato essere il «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia», e di «una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna». Non è la prima volta che il «giudice delle leggi» si esprime in questi termini. Già nel 2016, infatti, con un’altra sentenza, la suprema Corte aveva definito «indifferibile» l’intervento del legislatore per riformare in maniera organica «secondo criteri finalmente consoni al principio di parità» la questione del cognome da attribuire ai figli.
Tornando però al pronunciamento di questi giorni, ci sono più considerazioni che meritano di essere svolte. La prima concerne il fatto che l’assunzione del cognome paterno, pur prevista dal citato articolo 262 del Codice civile, non è già più – alla luce di quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 26 maggio 2006, n. 12641 – una prescrizione inderogabile alla luce della dichiarata non autorizzazione alla stessa in caso di pregiudizio per il minore (si pensi al caso della cattiva reputazione del padre) o allorquando «il minore» avesse già «maturato una precisa, infungibile identità individuale e sociale per il fatto di essere riconosciuto col cognome della madre nella cerchia sociale in seno alla quale è vissuto».
Al di là di quanto osservato dalla Consulta, insomma, è scorretto riferire o lasciare intendere che sussista in Italia un obbligo inderogabile al cognome paterno. Che comunque, attenzione, rappresenta un elemento che va valutato con attenzione, prima di esser messo da parte. «Cosa resta ai padri, già privati della patria potestà», si chiedeva in proposito Camillo Langone, intervenendo sul Foglio su questo tema, «se togli loro anche la possibilità di dare il cognome ai figli? Perché un uomo dovrebbe ancora contribuire alla riproduzione? Per la gioia di versare assegni di mantenimento?». Apparentemente provocatoria, questa domanda non è affatto banale.
Anche perché va aggiunto che, se è vero una legislazione per esempio sul doppio cognome è già presente in vari Stati Europei – leggi del genere sono presenti in Francia, in Spagna, in Germania, in Inghilterra -, è altresì indubbio come tale legislazione poggia sempre su una tradizione radicata e del tutto assente nel nostro Paese. Senza dimenticare che appare retorico e approssimativo un argomentare che rimandasse agli ordinamenti esteri lasciando intendere come le scelte di questi siano, ove simili, certamente buone. E se fosse la scelta del doppio cognome ad avere risvolti critici? Perché trascurare in toto tale ipotesi?
Simili quesiti non paiono affatto oziosi in una fase storica in cui già si osserva – sul versante psicologico, sociologico e culturale – una forte crisi della figura paterna, indebolita a sua volta da un’eclissi della virilità. Insomma, il padre è già purtroppo estremamente in difficoltà o assente, come denunciato anni or sono da un bel libro di Claudio Risè, Il padre l'assente inaccettabile (San Paolo). C’è quindi il serio rischio che pronunciamenti come quello della Consulta possano avere effetti esiziali, accelerando un pericoloso processo di decostruzione della figura paterna già in corso da tempo. E per il quale la cultura dominante non sembra preoccupata, anzi.