Si chiamava Alyona Dixon, era incinta di otto settimane e aveva 24 anni quando è morta, quasi un anno fa, dopo aver assunto mifepristone (da noi noto come pillola RU-486), la pillola abortiva distribuita negli Stati Uniti dalla nota “Planned Parenthood”. Ha accusato inizialmente un dolore al ventre: dopo qualche esame generico, l’ospedale l’ha dimessa consigliandole una visita ginecologica e di farsi viva se i sintomi fossero peggiorati. Nel giro di due giorni la ragazza peggiora, i sintomi si moltiplicano e si aggravano, finché solo alle 5.32 del 28 settembre scorso i medici capiscono qual è il problema: «complicazioni da aborto settico», hanno scritto, quando ormai era troppo tardi, sul suo certificato di morte.
Di tutto ciò non si è saputo niente per un anno: la vicenda è emersa soltanto quando si è diffusa la notizia della causa che l’avvocato della famiglia della giovane aveva intentato contro il Dignity Health, il centro medico a cui la ragazza si era rivolta, per non essere stato in grado di diagnosticare correttamente il problema che ha trascinato la giovane verso la fine dei suoi giorni. Per qualche motivo incomprensibile, Planned Parenthood, ovvero il soggetto che ha materialmente fornito ad Alyona il farmaco che l’ha uccisa, non è stata chiamata in causa. Un’esclusione ingiustificata, visto il numero di domande che la vicenda della giovane impone relativamente al monitoraggio della salute delle donne americane e alla gestione dei processi che vi sono sottesi.
Anzitutto “Planned Parenthood” ha dato assistenza ad Alyona, nel momento in cui ha accusato i malori che l’hanno portata alla morte? Ha seguito i protocolli di follow-up da applicare a chi assume quel tipo di farmaco, sempre che tali protocolli esistano, oppure il compito di quella struttura è solo distribuire aborti e chi s’è visto, s’è visto? Sembra proprio quest’ultimo il caso, visto che negli ultimi 15 anni, negli Stati Uniti, è aumentato del 500% il numero delle visite al pronto soccorso per conseguenze legate all’assunzione della pillola abortiva, secondo quanto rilevato dall’Istituto Charlotte Lozier. Ma non è tutto: in linea teorica, danni o decessi derivati dall’assunzione di un farmaco dovrebbero essere segnalati alla FDA – Food and Drug Administration, che negli USA ha il compito istituzionale della farmacovigilanza, e sono molti i dubbi che il colosso americano degli aborti provveda in questo senso.
Si parla di decine di donne uccise e migliaia danneggiate in qualche misura dal mifepristone, numeri impressionanti, su cui però aleggia un’aria di omertà. Se la vicenda della povera Alyona salta fuori dopo un anno, riflette Katie Daniel della Susan B. Anthony Pro-Life America, è legittimo dubitare che le autorità vengano informate correttamente. Anche per questo, dichiara, il suo gruppo «ha lavorato per anni per cercare di far passare al Congresso una legge che permetta di raccogliere queste informazioni a livello nazionale, in modo che l'opinione pubblica possa capire il vero pericolo di questi farmaci». E mentre la politica americana se la prende comoda, giovani ragazze come Alyona Dixon, già madre di un figlio, con un progetto in tasca per aprire un centro giochi per bambini, se ne vanno.
Per di più la vicenda di Alyona non è l'unica emersa di recente. Poco lontano, in Canada, si ha notizia certa di una 19enne ugualmente morta per shock settico, insieme al bambino che portava nel ventre, dopo aver assunto quella pillola che gli abortisti sostengono sia estremamente sicura. Una palese dimostrazione di analfabetismo visto che non solo numerosi studi, ma il sito governativo “Health Canada” scrive a chiare lettere che il farmaco presenta tra i vari gravi rischi anche quello di morte. Ancora più chiaro è Pete Baklinski, direttore delle comunicazioni della Campaign Life Coalition: «questo pesticida umano non è letale solo per i membri più piccoli della famiglia umana, ma anche per le madri incinte. La pillola abortiva deve essere immediatamente ritirata dal mercato canadese. Health Canada deve dichiararla un pericolo imminente per la salute pubblica».
Parole eccessive? Secondo il Guttmacher Institute no: il farmaco mifepristone, tipicamente usato insieme a un secondo farmaco, il misoprostolo, viene utilizzato per abortire più della metà di tutti i bambini non nati negli Stati Uniti ogni anno, ovvero quasi mezzo milione, e a contribuire a questo dato c’è il fatto che alcune aziende abortiste lo prescrivono anche ben oltre i suoi limiti d’uso, stabiliti in dieci settimane. Ecco allora che insieme alle interruzioni di gravidanza si contano anche i danni alle madri: chiamate d’emergenza esplose in UK, da quando è legale farsi arrivare la pillola micidiale per posta, in generale una donna su diciassette negli USA chiede assistenza medica dopo averla assunta, cifra che sale a una donna su dieci secondo uno studio dell’Università di Toronto pubblicato negli “Annals of Internal Medicine”.
E mentre questi dati sconcertanti si accumulano, l’amministrazione Biden abolisce tutte le norme di sicurezza legate al farmaco abortivo, favorendo così l’elusione dei processi di revisione della sicurezza e mettendo a rischio le vite di numerose donne, in barba alla trita retorica sua e della sua vice Kamala Harris. Difficile, in questo contesto politico, che possa instaurarsi, negli USA come altrove, uno strumento di monitoraggio serio e severo atto a tenere conto preciso non soltanto dei bambini uccisi prima di nascere, ma anche delle donne morte o rimaste severamente danneggiate dall’assunzione di un farmaco che, essendo assurto a simbolo politico di un modo distorto di concepire il progresso, gode, insieme a chi lo distribuisce, di grandi protezioni, pur essendo a tutti gli effetti, nell’efficace definizione di Baklinski, un “pesticida”.
di Matteo Delre