Il diritto naturale come fondamento del diritto positivo è stato messo in luce in vario modo dai pensatori greci, fin dal V secolo a.C., all’epoca della Sofistica. L’idea, poi, è stata ripresa dai filosofi cristiani e infine riproposta dal giusnaturalismo dell’età moderna (Grozio e altri).
Liberarsi con un gesto sprezzante di questa idea, magari affermando, come è stato fatto da qualche esponente Lgbt, che si tratta di “una contraddizione in termini” (!) è solo frutto di una colossale ignoranza della storia.
Di fronte alla variabilità, alla “relatività” delle leggi positive e soprattutto di fronte al carattere ingiusto di molte di esse, è necessario individuare un nucleo di norme permanenti, giuste in sé, razionali in se stesse, oggettive, cioè non dipendenti dall’arbitrio e dalle scelte soggettive dei vari legislatori, motivate spesso dall’interesse di singoli, di ceti, di gruppi detentori del potere.
Per esempio: in base alla legge positiva possono esistere schiavi e liberi, ma per natura tutti gli uomini hanno pari dignità. Così leggiamo in un frammento di un filosofo greco del V secolo.
Il diritto naturale è pertanto un diritto non scritto, che l’uomo scopre con la ragione e che deve costituire la norma fondamentale del diritto positivo, delle leggi positive.
Identificare le leggi naturali con una determinata costituzione o una determinata dichiarazione dei diritti è del tutto errato. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, per esempio, è costituita da norme che sono relative a un tempo e a un luogo, e sono quindi frutto di una decisione storica. Le norme del diritto naturale sono invece riconosciute dalla ragione e non create da decisioni politiche, magari prese a maggioranza. Ciò che si può e si deve esigere è che il diritto positivo non contraddica il diritto naturale e che ad esso faccia riferimento.
Qualsiasi Stato che – pur definendosi democratico – non riconosca e garantisca i diritti inviolabili dell’uomo in modo sostanziale, e quindi non accetti la legge naturale come presupposto del diritto positivo, è uno Stato etico: pretende di decidere che cosa è il bene e che cosa il giusto e tende così a trasformarsi in Stato totalitario. Il diritto naturale pone invece un limite al potere legislativo dello Stato. Se così non fosse, i cittadini sarebbero soggetti a qualsiasi arbitrio del legislatore.
Solo richiamandosi al diritto naturale è possibile criticare le leggi positive. In assenza di questo riferimento, ossia se ciò che è giusto (ciò che è legittimo) coincide con ciò che è stabilito dalla legge positiva (ciò che è legale), diventa impossibile opporsi, per es., ad una legislazione razzista, come quella introdotta da Hitler in Germania negli anni trenta del Novecento.
In assenza di un riferimento ad una legge naturale non scritta, come sarebbe possibile giustificare l’operato dei vari tribunali internazionali che perseguono “crimini contro l’umanità” non sanzionati da leggi positive dei paesi a cui appartengono i criminali perseguiti? E come sarebbe possibile considerare questi crimini imprescrittibili? Il principio generale nulla poena sine lege – non si può parlare di crimine e di pena in assenza di una legge che tale crimine definisca – non viene violato proprio perché si assume che esista un diritto o una legge naturale, al di là delle varie leggi positive. Ognuno, per esempio, si rende perfettamente conto, razionalmente, che il primo di quelli che chiamiamo diritti naturali è il diritto alla vita. Ma la promozione dell’aborto, della fecondazione artificiale e dell’eutanasia non riconosce questo diritto proprio ai più deboli. E questo avviene in molti Stati “democratici”.
L’espressione diritto (o legge) naturale può tuttavia prestarsi oggi a qualche equivoco che è bene dissipare. Il termine natura, nel pensiero greco e medievale, designa tutti gli enti, l’insieme ordinato degli enti (il cosmo). Ogni ente fa parte della natura ed ha, questo è fondamentale, una sua natura, una sua essenza, che ne costituisce il fine e che lo differenzia dagli altri enti. Così l’ente che chiamiamo uomo ha una sua essenza che lo differenzia dagli altri enti e che consiste nella razionalità: l’uomo è un animale che ha la ragione, il logos, come diceva Aristotele. In questo consiste la differenza specifica dell’uomo dagli animali con cui ha ovviamente in comune molte caratteristiche. Realizzare liberamente questa essenza (la razionalità) costituisce il fine dell’uomo, il suo compito specifico.
All’interno di questa visione si comprende come diritto naturale equivalga a diritto razionale: si tratta di scoprire ciò che è conforme alla ragione, e quindi ciò che costituisce il fine della vita umana. Le leggi positive devono favorire il conseguimento di questo fine e qualsiasi legislazione positiva deve avere come orientamento e norma fondamentale ciò che è giusto in sé, la realizzazione della vita buona, il diritto naturale appunto.
Nel corso del pensiero moderno il termine natura subisce però una profonda mutazione di significato: non designa più la totalità degli enti, ma un settore della realtà, la materia inanimata e animata, la res extensa di Cartesio, contrapposta al pensiero (la res cogitans) ossia all’uomo. In questo contesto diventa allora equivoco, anzi del tutto errato, parlare di un diritto naturale: se naturale sta a significare ciò che avviene nella natura inorganica e biologica, allora certamente naturale è l’incesto, naturale è cibarsi dei propri figli, naturale è uccidere il partner dopo l’accoppiamento, e così via, come avviene appunto in natura. E da questa “legge naturale” l’uomo deve uscire al più presto!
Ma è evidente che si tratta di intendersi sul significato del termine natura e cercare di usarlo in modo corretto. Il fondatore del giusnaturalismo moderno, Ugo Grozio, definiva la legge naturale come “il dettame della giusta ragione”. Ricordiamoci di questo nella polemica contro i negatori del diritto naturale. E forse, ma solo a scanso di equivoci, sarebbe meglio parlare sempre di essenza e fine dell’uomo, piuttosto che di “natura”.
E ciò avrebbe anche questo vantaggio: è ben difficile negare che l’uomo abbia una essenza o un fine; infatti anche chi nega che l’uomo abbia un’essenza, non può fare a meno di assumerla implicitamente; se dico infatti: “l’uomo non deve realizzare alcun fine, ma può fare quello che vuole in base ai suoi desideri, di qualunque tipo essi siano”, assumo implicitamente che l’essenza dell’uomo è il desiderio, che l’uomo è un essere, per essenza, desiderante e così via.
Giovanni Stelli
Fonte: Articolo apparso su Notizie ProVita di Luglio 2015, pp. 26-27
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