La ratio che fonda l’art. 9, comma 2 della legge 40 (“La madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396”), richiama l’assunzione di assoluta responsabilità che la madre assume verso il figlio, fortemente voluto e concepito con tecniche di Pma.
Com’è ben noto, il DPR n.396 che prevede la possibilità di ricorrere all’anonimato da parte della madre alla nascita del figlio ha la specifica finalità di dare una concreta possibilità di evitare il ricorso all’aborto quando la gravidanza non sia stata desiderata. Pertanto, nella fattispecie, il ricorso all’anonimato ha un fondamento di intrinseca eticità e assoluta condivisibilità.
Ma la situazione in merito a gravidanze dopo Pma presenta caratteristiche sue proprie e bisogna richiamare alcuni aspetti che non sono residuali.
In particolare, giova ricordarlo, il legislatore disciplinando nella Legge 40 l’impossibilità per la madre di ricorrere all’anonimato, non vuole discriminare tra gravidanze naturali e gravidanze con Pma, bensì tutelare il nascituro e la donna da possibili strumentalizzazioni e sfruttamenti del corpo quali la maternità surrogata o utero in affitto e il ricorso alla fecondazione con seme di donatore o ovociti comunemente ricordata come fecondazione eterologa. Inoltre, una donna che faccia ricorso alla fecondazione artificiale, dimostra di aver cercato a lungo la maternità, affrontando un complesso iter medico e psicologico. Infatti, nell’esperienza comune non risultano casi di disconoscimento di maternità dopo Pma o, perlomeno, non si rilevano significativi dati ufficiali.
Infine, non si può non rilevare come, da alcune dichiarazioni riportate dalla stampa, questa proposta si presti
in realtà a una specifica volontà di modificare la Legge 40.
di Lucio Romano