14/03/2014

Dopo l’aborto: il dolore che non si può dire

La ferita è profonda e il dolore resta per anni: a volte affogato da una miriade di impegni lavorativi, a volte «mascherato» da una famiglia con tanti bambini… La causa? Un aborto volontario o spontaneo: la decisione di non portare avanti una gravidanza o la conseguenza di un processo involontario che colpisce in media il 15% delle donne (percentuale che si eleva dopo i 35 anni). Ed ecco che 4 psicologhe: Elena Comba, Antonella. Gaspari, Simona D’Andrea, Alessia Nota (tre anche psicoterapeute) hanno scelto di indirizzare la propria professionalità su questo «dolore» dando vita un anno fa ad un’équipe chiamata «Il mandorlo – Rifiorire dopo un aborto»  che nasce dall’esigenza di sostenere le donne – ma anche i familiari – che hanno sofferto per un aborto. Non un’associazione di volontariato, ma un vero e proprio studio professionale con due sedi (una a Torino, in corso Einaudi 51 e una a Pinerolo, in via Cambiano 23) per affrontare il «post-aborto».

«L’idea  – spiega Elena Comba – è nata facendo la volontaria presso ‘Promozione Vita’ (associazione che opera per sostenere le future mamme nel periodo della gravidanza e nel post aborto). Mi sono resa  conto, incontrando donne che avevano già abortito e che cercavano aiuto per non ricorrere di nuovo all’aborto, che di fatto, interrotta la gravidanza,  si tratta di persone lasciate sole, che difficilmente trovano il modo di far emergere il dolore che provano. Vivono un dolore che resta ‘muto’  che non abbandona la persona, che riemerge e non trova soluzioni se non viene affrontato come tale. Nella mia esperienza professionale ho ad esempio incontrato donne che soffrivano di disturbi alimentari, ma in realtà andando a fondo del problema, all’origine la vera causa del disagio era un aborto. Altre volte manifestavano problemi di stabilità affettiva, problemi a vivere con progettualità ed è poi emerso che anni prima avevano deciso di abortire perchè quel figlio ‘arrivato troppo presto avrebbe interrotto il percorso di affermazione lavorativa’».

«Anche io – prosegue Alessia Nota – nello svolgere attività di volontariato a difesa della vita ho constatato che al di là delle motivazioni che avevano indotto le donne ad abortire, o delle appartenenze religiose mi trovavo di fronte a donne lacerate da un dolore, un senso di colpa, un peso che neanche dopo 20 anni, neanche dopo realizzazioni familiari o lavorative, veniva cancellato».

La proposta è di un percorso breve: 10 sedute per ascoltare, accompagnare le donne ad elaborare il lutto dell’aborto per «dare dignità ad un dolore soffocato, negato e costretto a risolversi in fretta. Per uscire dal senso di solitudine e di vuoto, per guardare avanti con speranza».

Fretta e solitudine, due parole che troppo spesso si accompagnano all’aborto… «Molte delle donne che arrivano da noi – prosegue la Comba – hanno scelto schiacciate dalla solitudine del non poter dire di quel figlio in arrivo, dal timore di trovarsi sole o di non farcela da sole, accompagnate solo dalla fretta dei ‘protocolli’, una fretta che non aiuta soprattutto in un momento in cui come quello dell’inizio della gravidanza la persona è più fragile».

Ed ecco che molte delle donne che si rivolgono al «Mandorlo» portano con loro la rabbia verso chi ha detto loro al termine dell’intervento «Ora è tutto finito», verso chi le aveva rassicurate sul fatto che «Si sarebbero tolte un problema», verso una valutazione superficiale della nostra società su cosa significa abortire.

«Solo in quel momento – racconta Stefania descrivendo la fine del suo percorso ospedaliero – ho realizzato che cosa avevo appena fatto! E da quel giorno cominciò l’inferno. Una sera cercai disperatamente il coraggio e il modo per tentare il suicidio… ma il coraggio non arrivava… arrivò allora il desiderio forte di chiedere aiuto…a qualcuno estraneo alla mia vita…».

La richiesta di aiuto: un primo passo che apre le porte alla «rifioritura». «Abbiamo scelto il simbolo del mandorlo  – spiega la Nota – proprio perché è la prima pianta che fiorisce dopo l’inverno e così vogliamo ridare speranza e fiducia alle donne che hanno vissuto l’aborto, vogliamo sostenerle nel riuscire a pacificarsi affinché possano tornare ad avere speranza e fiducia nella vita.. Perché con l’aborto muore anche un pezzo della donna, muore anche un pezzo di vita alla quale hanno rinunciato».

«Anche chi ha vissuto l’aborto spontaneo – prosegue la Comba – spesso vive un doppio dolore quello dell’attesa interrotta, del desiderio infranto e quello del silenzio in cui avviene. Normalmente infatti l’aborto spontaneo si verifica quando ancora nessuno o quasi sa del figlio in arrivo e allora non c’è modo di spiegare il dolore, il senso di vuoto che si sperimenta… eppure quel figlio c’era, magari aveva già un nome e la sua mancanza lacera. Lo stesso corpo della donna dopo poche settimane ha già recepito il cambiamento è già in trasformazione…».

Proprio sul fronte della comunicazione è stato anche realizzato un sito (http://www.post-aborto.it/) con i riferimenti del Mandorlo «perché conclude la Comba  – in questo senso di profonda solitudine – spesso Internet diventa un alleato: un luogo dove tante donne oggi cercano nell’anonimato una spiegazione a quel dolore che non le abbandona».

Per informazioni sul Mandorlo: 392.3779467.

di Federica Bello

Festini

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