06/12/2015

Edonismo, autodistruzione, salvezza

Abbiamo scritto recentemente della Signora C., l’inglese che desidera morire per non ingrassare, invecchiare, essere povera.

Su La Nuova Bussola Quotidiana, Francesco Agnoli, ha scritto una riflessione, in occasione del recente anniversario della morte di Oscar Wilde, che sembra la risposta giusta a quella Signora C. Una risposta che apre alla speranza, perché gli “zombie” che vivono solo di piacere, di sensualità, di apparenza, no, non invaderanno il mondo...

Riportiamo qualche brano del bel pezzo di Agnoli, con qualche nota biografica sul grande genio artistico che era Wilde, e infine un brano del “De Profundis”, che sembra scritto appositamente per la Signora C.

Il 30 novembre 1900, a Parigi, moriva Oscar Wilde, l’autore de Il ritratto di Dorian Gray.

La sua figura è spesso strumentalizzata ed incompresa, nella sua profondità e nel suo dramma.
Per questo può essere utile ricordare almeno alcune cose.

Oscar Wilde nasce a Dublino il 16 ottobre 1854. Come racconta il biografo Francesco Mei, suo padre, sir William, è un medico affermatissimo, che “cambia più spesso le amanti che non le camicie” (Francesco Mei, Oscar Wilde, Rcs, Milano, 2001). Sua madre, Jane, è “portata a trascurare l’andamento della casa, compresa l’educazione morale dei figli”. William e Jane sono una coppia “aperta”, con tutte le caratteristiche del caso. Quando Oscar nasce, la madre, “che aspettava ardentemente una bambina”, resta delusa. Proietta sul figlio, maschio, i suoi desideri: il piccolo Oscar viene vestito da bambina, “agghindato con trine e pizzi” e patisce tanto le imposizioni della madre, quanto l’assenza del padre. Vari biografi mettono in luce come Wilde abbia interiorizzato una figura negativa di padre, e questo gli abbia impedito di sviluppare appieno la sua virilità e il suo senso di paternità: cercherà sempre, in altre figure maschili, il padre che non ha avuto, e sarà, con la moglie e con i figli, il marito infedele e il padre assente che non aveva apprezzato in suo padre.

(...) Si sposerà, amerà sua moglie, ma, un po’ come il padre, senza mai riuscire a farlo veramente, alternando i rimorsi e il desiderio di tornare da lei, all’insicurezza e alla mutevolezza, ai rapporti fuggevoli e molteplici con donne, uomini e ragazzini.

In un vortice di depravazione, come dirà lui stesso, che lo porterà, dopo il successo, alla prigione, ma anche ad una salute inferma, causa l’uso prolungato di alcool, liquori, assenzio… sino alla fine dei suoi giorni.

(...) Nel 1897 [in carcere] scrive una lettera che prende il titolo da un salmo, De profundis, a lord Alfred Douglas, il suo amante. Il 30 novembre 1900 Oscar Wilde muore, dopo essere entrato nella Chiesa cattolica, di cui era sempre stato un estimatore, ed aver ricevuto l’estrema unzione (Paolo Gulisano, Il ritratto di Dorian Gray, Ancora, Milano, 2009, p. 181).

(...) Wilde non può essere compreso se non riandando alla sua domanda: sono i piaceri del mondo, i “frutti terrestri, a saziare la fame dell’uomo, oppure la nostra “inquietudine”, per citare Agostino, è saziata solo dall’incontro con Dio?

Riportiamo qualche frase dal De profundis, scritto quando il poeta non è più sul palcoscenico, ma giù dal piedistallo su cui lui stesso aveva voluto mettersi, per essere da sè il senso della propria vita; scritto quando al posto dei piaceri sensuali e della dissipazione, vi sono il dolore e la solitudine; quando il tentativo di costruire una vita splendida, al di là del bene e del male, “come se Dio non ci fosse” e “tutto fosse lecito”, si è rivelato un fallimento.

Scrive Wilde: “Bisogna, sì, ch’io mi dica che da me stesso io mi sono distrutto e che nessuno, piccolo o grande, non si può rovinare che con le sue proprie mani. Io sono pronto a dirlo; mi sforzo di confessarlo, quantunque, forse, in questo momento, non lo si creda. Senza alcuna compassione io sostengo contro di me l’implacabile accusa. Per quanto terribile sia stato ciò che il mondo mi ha fatto di male, quel che io feci a me stesso fu più tremendo ancora… Mi divertii a fare l’ozioso, il dandy, l’uomo alla moda. Mi circondai di poveri caratteri e di spiriti miserevoli. Divenni prodigo del mio proprio genio e provai una gioia bizzarra nello sperperare una giovinezza eterna. Stanco di vivere sulle cime, discesi volontariamente in fondo agli abissi per cercarvi delle sensazioni nuove. La perversità fu nell’orbita della passione quel che il paradosso era stato per me nella sfera del pensiero. Infine il desiderio si cangiò in una malattia, o in una follìa, o in entrambe le cose. Divenni noncurante della vita altrui.

Colsi il mio bene dove mi piacque e passai oltre. Dimenticai che ogni più piccola azione quotidiana forma o deforma il carattere e che, per conseguenza, ciò che si è compiuto nel segreto della propria intimità si sarà poi costretti a proclamarlo al mondo intero. Così, non fui più padrone di me stesso. Non riuscii più a dominare la mia anima e la ignorai. Permisi al piacere di governarmi e finii coll’essere abbattuto da una sventura orrenda. Adesso non mi rimane più che una cosa: l’assoluta umiltà...”.

Poi, parlando di Gesù, scrive: “…Certo, egli ha il senso della pietà per i poveri, per coloro che sono relegati nelle prigioni, per gli umili, per i miserabili, ma egli ha molta più compassione per i ricchi, per gli edonisti, per coloro che sacrificano la loro libertà e divengono gli schiavi delle cose, per quelli che portano abiti preziosi e abitano in palazzi regali. Le ricchezze e le voluttà a lui sembrano invero delle tragedie più grandi che la penuria e il dolore. Per Natale sono riuscito a procurarmi un Testamento Greco ed ogni mattina, dopo aver spazzato la mia cella e forbito i miei utensili, leggo un passo dei Vangeli, una dozzina di versetti presi a caso, non importa dove. È una deliziosa maniera di cominciar la giornata. Ciascuno, anche vivendo una vita turbinosa e disordinata, dovrebbe fare così…”.

Sentiva Wilde, che Gesù aveva pietà anche di lui, del suo edonismo sfrenato, su cui aveva cercato di costruire la propria felicità, e che era stato, invece, al contrario, la sua condanna.

Chissà che anche la Signora C., o qualche “zombie”, possa scoprire che la vita può avere un senso ben oltre il lusso, il piacere e l’apparire...

Francesca Romana Poleggi

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