Viviamo nell’era della “educazione 3.0”. In una società dove a vincere sono i bip-bip dei messaggini sulle parole, dove il computer è diventato uno strumento pressoché indispensabile nella vita quotidiana e lavorativa e dove le relazioni sono essenzialmente virtuali, l’educazione non può non riflettere questa tendenza.
Ma è veramente un bene, tutto questo? Se da un lato è indubbiamente utile sapersi interfacciare in maniera disinvolta con la tecnologia ed è innegabile che questa faciliti tante operazioni che una volta erano onerose in termini di impegno e di tempo, è altresì vero che l’educazione non deve sempre seguire l’impostazione della società, bensì deve tenere fede allo scopo suo precipuo: tirare fuori il meglio da ogni singola persona, aiutandola a realizzare appieno il proprio potenziale. L’educazione 3.0 assolve questo compito?
Il discorso che andiamo a fare prende spunto dal Piano Nazionale Scuola Digitale improntato dal Miur, che prevede un investimento totale di 25 milioni e che pare avere tutto l’intento di cambiare la didattica scolastica, con tanto di “Decalogo per l’uso dei dispositivi mobili a scuola”. Tutto l’opposto di quanto sta avvenendo in Francia, insomma, dove il ministro dell’istruzione Jean-Michel Blanquer ha introdotto il divieto di smartphone a scuola.
Il Ministro all’Istruzione Valeria Fedeli, intervenendo nel corso di “Futura” a Bologna (18-20 gennaio 2018) ha affermato: «Grazie al Piano Nazionale Scuola Digitale l’innovazione è diventata possibile in ogni scuola e tantissime istituzioni scolastiche sono già in grado di mostrare esperienze di innovazione. Oggi quelle digitali sono competenze indispensabili per stare con consapevolezza e positività nel mondo globale, per non subire i cambiamenti, per governarli e orientarli su prospettive utili al Paese. La natura dell’innovazione, della scuola e per la scuola, è quindi prima di tutto culturale».
Una scelta, quella del Miur, che si fonda sulla constatazione che «l’innovazione è decisiva per governare il cambiamento. È una sfida – ha continuato il Ministro – che non si vince semplicemente acquistando tecnologia o introducendo nuovi contenuti o obiettivi formativi. Si vince sviluppando spirito critico e responsabilità, si vince investendo con decisione sulla cura della qualità, che riguarda l’organizzazione, la didattica e l’innovazione metodologica. Si vince puntando sulle competenze».
Tante parole, ma nel concreto cosa succederà?
Lo si può evincere dal decalogo elaborato dagli esperti del Miur, che valutano il cambiamento in maniera positiva e che – orrore! – non trovano nella proibizione una soluzione valida. In sintesi: i ragazzi potranno usare lo smartphone in classe, con disponibilità di connessione da parte della scuola e la didattica potrà avvalersi di mezzi tecnologici (cosa che peraltro già avviene), il tutto ponendo attenzione all’autonomia, all’uso responsabile, all’inserimento in una più ampia comunità virtuale e al reperimento di informazioni online, al dialogo con le famiglie, alla formazione degli insegnanti (e alla loro preparazione etica nell’uso dei social)... e, conclude il punto 10: «Educare alla cittadinanza digitale è un dovere per la scuola. Formare i futuri cittadini della società della conoscenza significa educare alla partecipazione responsabile, all’uso critico delle tecnologie, alla consapevolezza e alla costruzione delle proprie competenze in un mondo sempre più connesso».
Torniamo allora alla domanda iniziale: è veramente bene, tutto questo?
Se si guarda la questione dal punto di vista puramente didattico e formativo, la risposta potrebbe anche essere (non “è”... il dubbio rimane) positiva.
Ma la scuola e le famiglie non hanno solo questo dovere verso le giovani generazione: quando si parla di educazione si deve guardare innanzitutto alla persona, non solo al mondo che ci circonda. Che persone vogliamo crescere? Sempre connesse, pronte a rispondere in ogni momento, informatissime su ogni news, autoreferenziali e, nel contempo, incapaci di attenzione, di approfondimento, di ragionamento, di creare relazioni di carne, di fare sacrifici? Perché la direzione che stiamo prendendo è questa. La tecnologia è cosa buona, ma va gestita e bisogna essere consapevoli della sua pervasività e della sua capacità di cambiare il nostro cervello. Forse è un caso il fatto che personalità come Steve Jobs non davano il computer ai loro figli? Più si è connessi e responsivi, meno si ragiona e si è capaci di approfondimento.
E allora io, nonostante la giovane età, preferisco essere all’antica e pensare all’educazione in senso tradizionale. Dalla scuola mi aspetto che dia ai miei figli una forma mentis che li aiuti a stare di fronte alle questioni che la vita presenterà loro, non mi aspetto un mero nozionismo; mi aspetto che insegni loro a vivere relazioni di carne, non virtuali; mi aspetto che insegni loro la fatica e il sacrificio, perché sono queste le cose che servono per raggiungere gli obiettivi.
Non mi aspetto che la scuola “risolva” la vita dei miei figli o che li educhi a 360 gradi: la prima agenzia educativa rimane la famiglia e la responsabilità educativa è in primis dei genitori. Ma non mi aspetto neanche una scuola che si adegui al mondo e consideri i miei figli dei pecoroni che seguono la massa, magari anche disadattati perché a casa non hanno la TV o perché non riceveranno uno smartphone prima dei quattordici anni.
L’educazione è una cosa seria, maturata nella storia di decenni: il 3.0 sarà anche accattivante, ma che basi ha?
Teresa Moro
per un’informazione veritiera sulle conseguenze fisiche e psichiche dell’ aborto