Tra i vescovi che sono intervenuti con più forza nel dibattito sull’eutanasia, figura monsignor Massimo Camisasca. Già qualche settimana, il titolare della Diocesi di Reggio Emilia – Guastalla, fa ha affidato ad un’intervista su La Verità le sue considerazioni sul principio della sacralità della vita, partendo da «ragioni laiche», per quanto «sostenute e approfondite dalla fede».
«L’uomo non è padrone della propria vita», ha esordito il presule. Oggi l’uomo stesso «si sente padrone di sé stesso, anche se non può non avvertire i limiti della propria esistenza quali la malattia e la morte, decide di allontanare da sé il più possibile i segni di tali limitazioni».
Se tutti noi «siamo invitati a riconoscerci come illimitati e onnipotenti, diventiamo così disumani». L’umanità, al contrario, prosegue Camisasca, consiste «nel prenderci cura di noi stessi e degli altri»: è quello che dovrebbe fare lo Stato sostenendo «le cure palliative, le terapie del dolore» e aiutando «attraverso una presenza infermieristica costante le famiglie segnate dalla drammatica realtà di malati inguaribili».
Nemmeno le sofferenze più insopportabili, argomenta il vescovo, giustificano «il diritto a porre fine alla propria vita», né tantomeno una legalizzazione di tale diritto. «Accanimento terapeutico» ed «eutanasia attiva o passiva» sono accomunati dalla dimenticanza che l’uomo è «mortale» e «creatura».
Entrando nel merito del dibattito referendario, monsignor Camisasca mette in guardia dal rischio – riconosciuto anche da giuristi come Giovanni Maria Flick e Luciano Violante – di una legislazione che, intervenendo in qualunque argomento, finisca sempre per «riconoscere dei diritti universali». Se un giorno fosse riconosciuto il «diritto di uccidere», si finirebbe per non fermare più la «catena dei morti»: nemmeno contrastare la «pena di morte» o la «violenza sulle donne» avrebbe più un senso.
Se da un lato ormai è stato istituzionalizzato il concetto di «vita indegna di essere vissuta», è impressionante, osserva monsignor Camisasca, il fatto che «una massiccia informazione sui pericoli del ritorno del nazismo sia completamente cieca di fronte a questi aspetti». Di fronte, poi, alla «immensa sofferenza di chi è segnato da malattie irreversibili», afferma il vescovo, «non giudico nessuno, ma nello stesso tempo non riesco a trovare le ragioni per una giustificazione della eutanasia attiva o passiva».
Alla domanda se l’eutanasia non possa un giorno estendersi dai malati più gravi alle «persone affette da profonde depressioni, ma non invalide né allo stadio terminale», la risposta del presule è stata: «Temo purtroppo che sia così». A rigor di logica e per assurdo, monsignor Camisasca non ritiene «ragionevole» che l’eutanasia possa essere «un diritto soltanto per alcuni. O lo è per tutti o per nessuno». «Chi stabilisce – ha osservato – se per quella persona il dolore è intollerabile? Come valutare il dolore psichico? Ogni depresso avrà̀ diritto all’ eutanasia? Ogni depresso ha pensato almeno una volta al suicidio».
Il vero antidoto contro le derive eutanasiche, secondo Camisasca, sarebbe una «legislazione più chiara sul sostegno alla vita, sulla cura della sofferenza e del dolore». Al tempo stesso, serve «un intervento finanziario più consapevole, una visione non economicistica dei problemi dell’uomo. La priorità non è ridurre il numero dei malati, ma spendere di più̀ per prenderci cura di essi».
In conclusione, prendendo atto della più ridotta incisività della Chiesa sui temi della vita rispetto al passato, il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, auspica «una predicazione e un insegnamento che non dimentichino le verità̀ fondamentali della vita presente e futura, dell’uomo come creatura, del peccato e della salvezza».