27/12/2014

Eutanasia per chi ha un’incredibile voglia di vivere?

A proposito di chi sostiene l’eutanasia per coloro che sono in coma: un ricordo di Salvatore Crisafulli che, risvegliatosi dal coma profondo, ha raccontato che “lui c’era” e desiderava tanto comunicare la sua grande voglia di vivere. Proponiamo ai nostri lettori questo articolo pubblicato sul mensile Notizie Pro Vita, che meritava di essere letto e merita di non essere dimenticato.

Come un testamento spirituale, riecheggiano nella mia mente le parole che Salvatore Crisafulli, pochi mesi prima di morire, aveva dedicato alla mia intervista: «Dal mio letto di quasi resuscitato alla vita cerco anch’io di dare un piccolo contributo al dibattito sull’eutanasia. Il mio è il pensiero semplice di chi ha sperimentato indicibili sofferenze fisiche e psicologiche, di chi è stato lungamente giudicato dalla scienza di mezza Europa un vegetale senza possibile ritorno tra gli uomini e invece sentiva irresistibile il desiderio di comunicare a tutti la propria voglia di vivere».

Salvatore, a cui oggi va il nostro affezionato ricordo, si era risvegliato dal coma dopo un grave incidente e ha lottato, insieme con la sua famiglia, per far comprendere ai medici che sentiva e capiva tutto. Purtroppo, nonostante il codice deontologico e il solenne giuramento di Ippocrate, la professione del medico oggi sembra svuotarsi sempre più di umanità per lasciare spazio alla tecnica e alle macchine, mentre il paziente viene considerato non di rado come un oggetto meccanico che si è guastato.

Allo stesso tempo, al medico non viene più chiesto di porsi nei confronti del paziente in un rapporto empatico di condivisione della sofferenza, ma viene richiesta solo una competenza tecnica, finalizzata alla risoluzione del problema contingente della salute. L’uomo che si ritrova improvvisamente in un letto di ospedale rischia di cadere nelle mani di un’équipe medica che non si fa carico di lui se non in termini di funzionalità, in un clima di raggelante solitudine.

La scienza medica ha, invece, come scopo principale la carità: l’occuparsi anche della dimensione umana del malato è un presupposto imprescindibile per chi voglia dedicare la propria vita a questa professione, pena la degenerazione nella scelta arbitraria di chi è degno o meno di vivere, secondo parametri meramente utilitaristi ed efficientisti: l’impressione più che fondata è che si stia sviluppando una concezione sempre più permissiva verso la cosiddetta cultura della morte, anche a causa di un’oculata campagna mass-mediatica, campagna che fa leva su un errato senso di pietà e su una difficile accettazione del dolore. La vera compassione infatti ci rende solidali con la sofferenza degli altri e non elimina la persona di cui non si riesce a sopportarne l’aspetto drammatico. Come afferma anche Giuliano Zincone, «se i mass media esaltano la nobiltà dell’eutanasia, rischiamo di fabbricare una cultura che a poco a poco potrebbe convincere gli invalidi e gli anziani non autosufficienti a vergognarsi di se stessi, a sentirsi colpevoli perché disturbano la famiglia, i sani, le ASL».

Per contrastare questa mentalità malata occorre ribadire con forza il senso intrinseco della vita come dono, anche quando questa è sofferente. Perché è proprio nella malattia e nel dolore che molti riscoprono il senso della vita, Salvatore docet: «Ma cos’è l’eutanasia, questa morte brutta, terribile, cattiva e innaturale mascherata di bontà e imbellettata col cerone di una falsa bellezza? Dove sarebbe finita l’umana solidarietà se coloro che mi stavano attorno durante la mia sofferenza avessero tenuto d’occhio solo la spina da sfilare del respiratore meccanico, pronti a cedermi come trofeo di morte, col pretesto che alla mia vita non restava più dignità? Credetemi, la vita è degna di essere vissuta sempre, anche da paralizzato, anche da intubato, anche da febbricitante e piagato».

Irene Bertoglio

Tratto da NotizieProVita n.4 – Aprile 2013 – pag.8

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