La comunità scientifica si interroga sull’eutanasia e molti luminari sollevano dei pesanti dubbi sull’opportunità o meno di accedere ad una regolamentazione sempre più estensiva.
Le ricerche condotte negli Stati dove la cosiddetta dolce morte è già a regime dimostrano, infatti, che a farne richiesta sono statisticamente le categorie più svantaggiate e sole, sia sotto il punto di vista economico-sociale che mentale: un divorziato, una persona senza figli od un depresso sono le prede più appetibili della cultura della morte.
L’altro dubbio che sorge è lo squilibrio tra le ricerche per le cure del dolore e la promozione dell’eutanasia: se rendere il dolore più sopportabile o curare determinate patologie come la depressione divengono ambiti meno appetibili per la medicina rispetto all’attivazione della proceduta di morte... ne comprendiamo gli esiti.
Riportiamo un’analisi condotta sulle pagine del giornale Avvenire per completezza di ragionamento.
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Viene chiesta in questi giorni la calendarizzazione nel dibattito parlamentare di leggi che regolino l’eutanasia in Italia. I giornali affrontano l’argomento come se fosse il Paese, o addirittura la comunità scientifica, a chiedere di introdurre forme attive per porre fine alla vita; come se questo fosse «il vento ineluttabile della società moderna» cui non ci si può sottrarre, pena il bollino di retrogradi. Leggendo i giornali, insomma, sembra che l’eutanasia sia richiesta a gran voce da tutti e che ormai sia assodata l’equazione tra desiderio di morte e diritto di ottenerla. Il problema che ferma questo ingranaggio è che la comunità scientifica ha seri dubbi sull’utilità dell’introduzione dell’eutanasia, in particolare la comunità che cura i malati e che fa ricerca per trovare nuove cure. Insomma: tanto polverone per un’equazione che a livello scientifico non funziona. Vediamo perché.
La professoressa Gail Van Norman, sull’ultimo numero di Current Opinion in Anaesthesiology mette in guardia: «Suicidio assistito e eutanasia presentano rischi potenziali per depressi e disabili», elementi della società fragili, influenzabili e talora mal curati, che potrebbero trovare nella scorciatoia mortale una via impropria alla soluzione dei loro problemi. L’editoriale della rivista spiega: «Abbiamo la responsabilità di assicurare che né gli individui né la società abbraccino l’eutanasia come mezzo appropriato per trattare la sofferenza».
Anche l’International Journal of Epidemiology di febbraio – parlando di suicidio assistito – solleva il dubbio che «gruppi svantaggiati vadano a morire in questo modo più di altri gruppi»; per esempio chiedono di morire soprattutto le persone sole, i divorziati, quelli senza figli. Esaminando l’esperienza dell’Oregon – dove l’eutanasia è legale – la Van Norman conclude che quando si valutano le richieste di morte «poche consultazioni psichiatriche vengono fatte per valutare la depressione»; e significativo è lo studio pubblicato su Disability and Health journal, dal titolo significativo «Uccidendoci dolcemente: i rischi della legalizzazione del suicidio assistito», in cui si riporta come i disabili temano che il suicidio assistito se legalizzato porti ad un minor interesse per le cure delle persone con disabilità e ad aumentare i pregiudizi verso la disabilità.
Lo stesso giornale riporta in altra data le critiche alla legge sul suicidio assistito da parte dell’associazione di disabili significativamente chiamata «Non ancora Morti», in cui si lamenta che si crei di fronte al suicidio un doppio binario, che da una parte porta a prevenirlo e dall’altra a legalizzarlo, a scapito – dato che il suicidio assistito non è riservato solo a chi è in fin di vita – di chi è più fragile e che potrebbe invece essere aiutato altrimenti: anche un ampio studio (Health Psychology del 2007 ) mostra che i malati terminali che chiedono il suicidio assistito lo chiedono non per il dolore che provano, ma per essere caduti in depressione (malattia curabile) o perché si sentono un peso per gli altri, e se è per il dolore, quando questo viene curato a dovere cambiano idea. Insomma, eutanasia e suicidio, a parole introdotti per evitare un accanimento o una sofferenza insopportabili, sono così a rischio di travalicare questi scopi (che comunque si possono raggiungere per altra via) da esser guardati con scarsa fiducia da buona parte della comunità scientifica.
Si pensi che contro l’eutanasia, in particolare quella dei bambini, insorgono i medici che curano i malati, e che vedono le stesse patologie che loro curano essere oggetto per decidere di far morire. Ad esempio dei neurochirurghi olandesi sottolineano che nel caso della malattia detta “spina bifida”, che dà alterazioni al midollo spinale e che è invocata come ragione di eutanasia, la malattia non sia affatto insopportabile e dolorosa senza speranza, come riporta su Child Nervous System del 2008 il dr de Jong; e sul Journal of Perinatal Medicine del 2009 si riporta come il protocollo di Groningen sull’eutanasia sia da respingere sia per motivi etici che per motivi medici.
Come pensare che la “dolce morte” sia in linea con chi cura bene la depressione e vede invece che gente con depressione va a farsi suicidare o chiede la morte mentre ben sanno che la depressione resta sottostimata e sotto diagnosticata, come spiega il Journal of Clinical Psychiatry del 2010? O il dolore. Addirittura il Journal of Clinical Oncology di maggio riporta che ben il 33% dei pazienti oncologici che necessitano un trattamento contro il dolore, o non lo ricevono in modo adeguato o non lo ricevono affatto. Per non parlare di chi studia in profondità le persone in stato vegetativo e ritrova segni chiari che mostrano un’interazione con l’ambiente, altro che “vegetali”: i pazienti in stato vegetativo riescono addirittura a valutare il linguaggio di chi gli sta intorno, come mostrano studi fatti con la risonanza magnetica (vedi per esempio Brain del 2007 o Brain Injury del 2008); come pensare che sia nel loro interesse morire, se il presupposto per farlo è che ormai non sentirebbero più nulla?
Dunque è davvero l’eutanasia una soluzione razionalmente medica? Uno studio sulla rivistaHematology del 2008 mostra che «la richiesta dei parenti o del paziente di affrettare la morte è un modo di esprimere la richiesta di maggiore comunicazione, miglior controllo dei sintomi. È raro che rappresenti la necessità per il paziente di controllare ora, luogo e modalità della morte». Insomma: la medicina chiede di aprire di più alla terapia; e i ricercatori sanno quanto ci sia ancora da fare in campo di lotta al dolore, alla depressione e alla solitudine sociale; altro che aprire i cancelli alla morte!
Eppure le riviste inglesi come Lancet riportano che certe categorie di malati – come ad esempio i disabili mentali – sono oggi «invisibili» al sistema sanitario nazionale, quasi non esistessero. Certo, bisogna evitare di accanirsi su chi è incurabile, ma un conto è non insistere in cure inutili un conto è l’eutanasia. Allora dobbiamo decidere dove dirigere gli sforzi: se verso la morte agevolata – facendo credere che il vero diritto sia morire e non essere curati meglio – o verso un miglior trattamento per tutti. Aprire al fine vita volontario sembra proprio una scorciatoia per non affrontare i veri problemi della medicina e della società: la scarsa cura del dolore, l’abbandono, l’accesso di tutti alle cure, la umanizzazione degli ospedali. Troppo facile aprire alla morte e lasciare tutti questi punti senza una risposta.
Carlo Bellieni