Una riflessione sulla responsabilità educativa in famiglia (spigolando dall’Amoris Laetitia – AL)
La famiglia oggi non può, né deve, derogare al suo ruolo di sostegno, di accompagnamento e di guida educativa. Ma è chiamata a reinventare metodi e strategie.
Questo compito è tanto più urgente, perché nella società postindustriale si sono sgretolate le comunità di appartenenza, che un tempo alimentavano e formavano le identità, quegli ambienti, sociali, religiosi, politici, dove ci si poteva ritrovare e dove i punti di riferimento erano netti e saldi. La crisi di certezze ha disincantato il mondo e ha spiazzato anche le piccole comunità familiari, sempre più scosse dalle fondamenta, cosicché anche i bambini e gli adolescenti sono sempre più esposti e disarmati.
Tuttavia, l’ossessione, che può essere la risposta più immediata all’ansia da spaesamento, non è educativa. Il progetto educativo non deve partire dalla paura né far leva su di essa. Piuttosto deve puntare alla persona, “al centro della sua libertà”, come è scritto nell’Amoris Laetitia (AL 262), in quell’interiorità dove solo possono albergare prudenza, buon giudizio e buon senso.
Per questo la responsabilità che i genitori hanno è grande.
Essa inizia dall’essere autorevoli. Nella misura in cui i genitori sono degni di fiducia, i figli avranno fiducia nel mondo che li circonda, negli altri e, ancor prima, in se stessi.
È questa «l’esperienza fondamentale educativa» (AL 263), la fonte da cui origina l’educazione della volontà.
Famiglia ed educazione: quali metodi?
I metodi devono essere attivi, nel senso che il figlio deve arrivare a scoprire da sé l’importanza di valori, principi e norme. Riceverli passivamente, attraverso forme impositive, predispone all’ipocrisia, perché la risposta non sarà mai autentica, sentita, convinta.
Il compito dell’educatore è coltivare la libertà, non la coazione. Pertanto, «è indispensabile sensibilizzare il bambino e l’adolescente affinché si renda conto che le cattive azioni hanno delle conseguenze» (AL 268). L’educando deve toccare con mano le conseguenze delle sue azioni anche, e soprattutto, quando sono negative. Solo così la libertà porta alla responsabilità ed educa al rispetto delle norme.
Il rispetto delle norme non deve essere prospettato in ragione di astratti postulati, quanto in rapporto alla concretezza della relazione con gli altri. Per questo occorre «…orientare il bambino con fermezza a chiedere perdono e a riparare il danno causato agli altri...» (AL 268). Solo, in tal caso, la sanzione avrà l’effetto di educare alla riflessività e all’approfondimento morale, insegnando ad aprirsi al confronto e all’incontro con l’altro.
La disciplina non deve essere mai avvertita come mutilazione del desiderio, come costrizione. Piuttosto essa deve servire da stimolo per andare oltre l’istintività e l’egocentrismo infantile. È questo anche un modo per imparare «il buon uso della libertà» (AL 274).
In tal caso, occorre evitare due estremi:
1) «Pretendere di costruire un mondo a misura dei desideri del figlio», che, in tal caso, crescerà sentendosi «soggetto di diritti ma non di responsabilità»;
2) «Portarlo a vivere senza consapevolezza della sua dignità, della sua identità singolare e dei suoi diritti, torturato dai doveri e sottomesso a realizzare i desideri altrui» (AL 270).
Saper aspettare, saper incontrare, saper amare
Ma tutto questo si concreta nella capacità di saper aspettare.
Saper aspettare significa apprendere ad essere padroni di se stessi, non sottomessi alla soddisfazione delle proprie necessità immediate, all’impulso del «tutto e subito» (AL 275). Significa ancora imparare il rispetto dei tempi degli altri.
Esso ha come frutto la virtù della pazienza, che è equilibrio nel proprio rapporto col tempo e, quindi, con l’esistenza. E sulla pazienza fa leva l’educazione alla prossimità, l’educazione cioè a non utilizzare l’altra persona, a usarla, per compensare carenze e limiti propri (AL 283). Essa è rintracciabile in quell’ansia da soddisfazione che ottenebra la capacità di giudicare e che rinserra nella solitudine malata di chi non sa più incontrare.
Dove si apprende ad incontrare, si schiude il mondo, infinito nella sua finitezza, dell’altro, del tu. Esso dilata il nostro secondo una traccia che dalla capacità di accettare ed accogliere l’altro si spinge fino alla capacità di amarlo (AL 285).
Clemente Sparaco