Adottato dalla madre non biologica. É quanto successo ad un bambino di sei anni che - secondo quanto riferito martedì dall’edizione veneta del Corriere della Sera – è stato appunto adottato, previa autorizzazione del Tribunale di Venezia, dalla madre non biologica, dopo che le sue «due mamme», due signore padovane – una libera professionista e una impiegata -, si sono separate. Così, questo figlio, ottenuto dalle donne a seguito di un viaggio in Spagna con l’impiegata che si sottopose a fecondazione assistita con il seme di un donatore anonimo, oltre all’esperienza di non avere un padre, e a quella della separazione della coppia con cui è cresciuto, ora vivrà pure quello dell’allontanamento da colei nel cui grembo si è formato.
Un passaggio, quest’ultimo, che i giudici hanno motivato affermando che la rottura del legame materno non dovrebbe nuocere al minore, dato che «il piccolo le considerava entrambe mamme». «Non si reputa ostacolo all’adozione», sono state le esatte parole dei magistrati, «la circostanza che l’unione sentimentale tra la madre dell’adottando e l’adottante sia venuta meno». Ora, anche se questo caso non è in assoluto l’unico né rappresenta il primo nel suo genere (è la prima volta in Veneto, ma la seconda in Italia, dato che esiste un precedente a Bologna), è evidente che obbliga ad una riflessione. In primo luogo, sulla dignità personale che di questo bambino che – per quanto le leggi e purtroppo anche le sentenze dicano altro – è stata ampiamente calpestata.
Infatti, già quando un figlio viene ottenuto con la fecondazione in vitro è in qualche modo mercificato ab origine, nel senso che da persona – e soprattutto da dono – viene interpretato come una pretesa: da qualcuno, insomma, a qualcosa. In secondo luogo, come già detto, a questo bambino tocca un duplice trauma: quello di crescere senza un padre ma soprattutto, attenzione, quello di non sapere cosa sia un padre. Ecco, da questo punto di vista si tratta di una condizione ancora peggiore di quella del giovane orfano che, sia pure per pochi anni, ha beneficiato della vicinanza paterna: nel caso in questione, neppure quello.
Da ultimo, non si può non rilevare, con tutto il rispetto per il Tribunale di Venezia, come sia surreale non ritenere il legame biologico tra un figlio e la donna che l’ha messo al mondo come rilevante. E non già, attenzione, per motivi etici né tanto meno religiosi, bensì biologici appunto; sì perché i figli – anche se qualcuno, curiosamente, sembra dimenticarlo – in quei nove mesi «cuore a cuore» con la madre vivono esperienze di contatto viscerale e unico. Basti pensare che è stato visto come, durante la gravidanza, i nascituri facciano registrare specifiche variazioni cardiache proprio quando ascoltano la voce materna, intrattenendo nella fase prenatale una vera e propria relazione con la madre ed essendo in grado di memorizzare, fra le altre, proprio la sua voce.
Per quanto, quindi, una perizia psicologica o anche più perizie possano portare ad affermare un piccolo consideri «entrambe mamme» le due donne con cui è cresciuto, la verità innegabile resta che di mamma, come ammonisce la saggezza popolare, ce n’è una sola. E tutte le diavolerie di una modernità che rende il figlio null’altro che l’oggetto di una pretesa nulla possono contro questo dato antropologico, prima che etico o giuridico. Dispiace solo che, quando come società apriremo gli occhi sui frutti amari dei “nuovi diritti” e delle “nuove famiglie”, a tanti bambini saranno state inflitte, come la storia commentata poc’anzi dimostra, tante (ed evitabili) sofferenze. E allora neppure le paroline passepartout - «diritti», «inclusione» - basteranno a mascherare la vergogna, collettiva s’intende, d’aver abdicato alla ragione.