02/11/2012

I Cav: una speranza profetica nella storia

Nell’Enciclica “Evangelium Vitae”, Giovanni Paolo II colloca i Centri di aiuto alla vita (CAV) tra i segni anticipatori della vittoria sulla morte. «Promossi da persone o gruppi che con ammirevole dedizione e sacrificio», i CAV «offrono un sostegno morale e materiale a mamme in difficoltà, tentate di ricorrere all’aborto» (EV, 26). «Grazie alla loro opera, non poche madri nubili e coppie in difficoltà ritrovano ragioni e convinzioni e incontrano assistenza e sostegno per superare disagi e paure nell’accogliere una vita nascente o appena venuta alla luce» (EV, 88).
Vorrei, dunque, mostrare le ragioni (o alcune delle ragioni) per le quali si può affermare che i CAV possono considerarsi una speranza profetica nella storia.
Partiamo proprio dalle tre parole chiamate in causa: speranza, profezia, storia.
La speranza è quella virtù che si associa alla fiducia nel bene, nel positivo, anche nella contingenza dei fallimenti e delle delusioni. Essa è perciò il contrario della rassegnazione e del pessimismo. La speranza è l’indispensabile condizione dell’impegno, del lavoro, della solidarietà, in base alla quale – si legge all’inizio della “Spe Salvi” – «noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino».
La profezia è parola di verità che vuole farsi azione, che vuole incidere nel presente e nel futuro, è capacità di vedere oltre l’immediato; si associa alla lungimiranza, alla capacità di guardare avanti, alla novità. La speranza è profetica quando, senza farsi ostacolare dalla paura di un presente buio e avverso, indica la via della promozione, dello sviluppo, dell’autentico progresso. Per questo la speranza profetica è spesso incompresa o scambiata per utopia e sogno. Essa è il contrario dell’arroccamento sul passato, del ripiegamento, della nostalgia per un tempo andato; vede mete buone da raggiungere e per questo opera nel presente affinché la storia vada in quella direzione.
La storia, ecco il terzo riferimento. Se essa non è soltanto un susseguirsi di eventi accostati casualmente l’uno all’altro che ci fa precipitare nel nulla, ma è un evoluzione caratterizzata da un senso buono che trascende l’esistenza del singolo e riguarda qualcosa di comune da costruire nel tempo, allora la speranza profetica non può che indicare la pace e la fraternità come senso della storia. Cerchiamo ora di capire in che modo i CAV entrano in tutto questo discorso.
La sfida delle origini e l’inizio di una rivoluzione culturale
Un primo elemento di riflessione lo troviamo nel DNA dei CAV. Quando infuriava – nel clima di menzogna che conosciamo – la propaganda abortista, nacque il primo CAV a Firenze e poi ne seguirono tanti altri. La nascita dei CAV è caratterizzata da una peculiarità che li rende nuovi e diversi da ogni altra forma di assistenza e volontariato, compresi quelli riguardanti la protezione della vita nascente, della maternità e dell’infanzia che fino ad allora erano presenti nella comunità cristiana e civile. I CAV, infatti, non nascono soltanto per dare una risposta immediata ai bisogni e alle necessità di una mamma in attesa, ma vogliono essere «sfida a una mentalità di morte». Per questo si collocano – come ha scritto Giovanni Paolo II nell’ “Evangelium Vitae” (n. 26) – tra i «segni anticipatori della vittoria definitiva sulla morte».
Non va trascurato il fatto fondamentale che la nascita dei CAV è contestuale all’inedita, fino ad allora, legalizzazione dell’aborto, tipica espressione di quella «cultura della morte» che – producendo «vere e proprie strutture di peccato», «una guerra dei potenti contro i deboli», una «congiura contro la vita» – aggredisce in primo luogo i bambini non ancora nati. L’aspetto più allarmante di questa cultura è la perdita progressiva, nella coscienza sociale, del profondo disvalore dell’aborto come «abominevole delitto» e la trasformazione di esso a “diritto”, al punto da pretenderne «un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l’interventi gratuito degli operatori sanitari» (EV 11). La novità dei CAV è proprio questa: rispondendo concretamente alle necessità di una donna che si trova di fronte ad una gravidanza difficile, non desiderata, imprevista, sfidare – altrettanto concretamente – una mentalità che nega la piena umanità del figlio concepito e nega il valore della maternità durante quella fase così unica e speciale che è la gravidanza. Se la novità della provocazione era evidente –  l’aborto proposto come “aiuto” alle donne, come “liberazione” – evidente era anche la necessità di impedire che prevalesse nella società l’assuefazione ad un sentimento di falsa compassione verso la donna e convogliare energie positive sul fronte di una comune e accorata difesa della mamma e del figlio. Perciò, la risposta dei CAV fu immediata: “Le difficoltà della vita non si superano sopprimendo la vita, ma superando insieme le difficoltà”. Questo essere sfida ad una mentalità di morte, spiega, tra l’altro, la ragione della diffusa ostilità verso i CAV nelle società abortiste. E’ un aspetto apparentemente sorprendente, perché il servizio dei CAV non si impegna direttamente contro la legge 194/1978 e perché ogni altra forma di volontariato viene lodata, ma la dice lunga sulla diversità dei presupposti culturali dei CAV rispetto a quella che andava profilandosi come la “cultura dominante”.
Già alle origini vi è dunque un seme di un rinnovamento gettato nella storia della società italiana, (ma non solo italiana, perché le strutture a servizio della vita umana presenti in altri Paesi hanno la stessa matrice): quello di una presenza che testimonia un valore grande e aggregante – quello della vita umana – da riconoscere, difendere e promuovere insieme, non solo nel singolo CAV, ma anche nella società tutta. E’ l’inizio di una rivoluzione culturale.
Metodo, stile, relazione, condivisione, nuovo femminismo
Questo implica amare concretamente la vita. La «sfida alla mentalità di morte» è lanciata con l’azione di solidarietà concreta, con l’amore verso il prossimo, il figlio e la madre insieme. Perciò, quando la cultura della morte gridava lo slogan “socializzare per prevenire” che non teneva conto né della singola concreta e reale vita del bambino non nato, né di quella della sua mamma che da quell’aborto avrebbe ricevuto una ferita indelebile, dai CAV venne l’esigenza di dare corpo e anima ad un’autentica nuova forma di condivisione e solidarietà: non urlata e retorica, ma proposta e tangibile; non “contro”, ma “per”; non in “antagonismo”, ma in “alleanza”. Di qui l’impronta della speranza e della lungimiranza anche nel metodo di azione dei CAV. Uno specifico stile di mitezza e discrezione, di rifiuto del giudizio sulle persone, di ottimismo, di disponibilità e di fiducia, di valorizzazione di tutto ciò che è positivo anche nelle situazioni più complicate. «Non siamo appariscenti, ma appassionati», mi diceva qualche giorno fa Bruna Rigoni. Con grande umiltà, nella consapevolezza dei propri limiti, sussurrando più che gridando, i CAV hanno detto e dicono che “è possibile”. E’ possibile dissipare le nebbie della solitudine (spesso ammantata dal falso e pilatesco rispetto del “decidi tu” che vuol dire “arrangiati”) e salvare la vita dei bambini ponendosi “accanto” e non “contro” le madri; è possibile attuare un’autentica condivisione armonizzando carità e verità, condannando l’aborto e contemporaneamente mettendosi in sintonia, ispirando fiducia; è possibile, tenendo idealmente per mano il bambino che vive nel seno della sua mamma, «passare attraverso il cuore e la mente» di lei e veder quel fiorire quel “sì” alla vita, alla vita del piccolo bimbo in viaggio verso la nascita. E’ possibile, perché madre e figlio stanno dalla stessa parte. Nei CAV, come nelle case di accoglienza e nei servizi ad essi collegati, c’è «l’uomo che risponde all’attesa dell’uomo con la sua profonda consapevolezza, con la sua generosa e gioiosa disponibilità», per questo sono «segni pieni di speranza» (Don Leo Cerabolini, Convegno CAV del 1997). Certo, non è sempre facile e non bastano gli slanci e i buoni sentimenti. “I cuori e le menti” sono spesso tutt’altro che facilmente percorribili, specialmente nei momenti di disagio, smarrimento, preoccupazione, come quando una gravidanza è inattesa. Sovente vi è confusione, i timori sono disseminati ovunque, la complessità del vissuto si erge come una barriera che sembra impenetrabile, si tocca il solco di cicatrici antiche e recenti, ci si scontra con esperienze negative non elaborate positivamente. Non mancano, poi, i grovigli relazionali, coniugali e familiari. Spesso vi è il peso della lontananza dalla famiglia, dello sradicamento rispetto alla propria origine, della scarsa conoscenza della lingua, della difficoltà di adattarsi a tradizioni e modi di vivere diversi. In non pochi casi, la donna che arriva al CAV ha alle spalle un’esperienza di aborto volontario. Si è reso così necessario l’ingegno per “professionalizzare”, diciamo così, la passione per la vita e offrire una condivisione “di qualità”: accanto a veri e propri itinerari di formazione mirata (iniziale e permanente), è richiesta da parte delle operatrici e degli operatori dei CAV, progettualità, capacità organizzativa e di coordinamento, conoscenza delle altre realtà con cui interagire sul territorio, cercando di formare reti di solidarietà verso la vita nascente. Il sempre validissimo il “Manuale dei Centri di aiuto alla vita” dà atto di tutto questo, illustrando nel dettaglio le finalità, le metodologie, i rapporti con le strutture civili ed ecclesiali. Penso ci sia un dovere degli operatori dei CAV di farne oggetto di uno studio sistematico.
Per questo nei CAV si realizzano storie di amicizia che continuano dopo la nascita del bambino.
Osservo marginalmente che nei CAV questo stile di condivisione calibrata sulla singola mamma e sulla singola situazione, è affidato soprattutto alle donne, alle operatrici. Elena Vergani, la scorsa settimana al Convegno organizzato dal MpV sul tema della sindrome post-aborto, ha affermato: «L’essenza della femminilità è il genio della relazione». Nei CAV – fucina del “nuovo femminismo” – la cultura antisolidaristica che tende a spezzare il fondamento della relazione nel riconoscimento dell’altro come altro uguale in dignità, si imbatte in un’altra logica quella della ricomposizione, della riconciliazione a partire dalla primordiale delle relazioni quella della mamma con la creatura che vive dentro di lei. La scommessa sulla femminilità come privilegiata capacità di accoglienza è vincente perché niente e nessuno può proteggere il figlio come sua madre quando il figlio vive dentro di lei. La recente toccante testimonianza di Chiara Corbella Petrillo, che si unisce a quella di tante altre mamme (come Gianna Beretta Molla, Carla Levati Ardenghi, Felicita Merati Cambiaghi, Maria Cristina Cella, Maria Antonietta Perretta, Rosy Annigoni, Rita Fedrizzi Fontana, Anna Maria Negri, Tonia Accardo, Stefania Dal Cer, Paola Breda …) lo dimostra senza ombre e incrinature.
Diciamolo: è vero, purtroppo, che non sempre il passaggio dal CAV muta il proposito o l’inclinazione all’aborto; purtroppo, qualche volta hanno prevalso le pressioni esterne, la paura e la chiusura.
Ma come non vedere, nonostante tutto, in questo tipo condivisione l’impronta della speranza che non si arrende di fronte agli ostacoli, che si organizza e che progetta? Come non accorgersi che l’incoraggiamento a guardare insieme oltre le paure, le angosce, i dubbi, poggia sulla profezia che l’abbraccio con il figlio che nascerà ripagherà di tutto? Come non vedere in questa condivisione una energia che genera e rinnova le relazioni, laddove la tentazione del conflitto e l’accento sulle differenze sembrerebbero incombere? Come non sperare che comunque, il passaggio dal CAV abbia in ogni caso aperto qualche spiraglio e gettato qualche seme che darà i suoi frutti in futuro anche per quella mamma che non ce l’ha fatta?
A molti anni di distanza è confortante riscontrare che la presenza dei CAV, pure tanto osteggiata ed emarginata, ha acquistato  – grazie a questo metodo – un certo riconoscimento pubblico (di questo ci parleranno poi il Dott. Morandini e il Dott. Picco) che apre qualche spiraglio nella barriera che vorrebbe escludere dal raggio di attenzione pubblica il tema della vita nascente.
Il concepito: un figlio
Ma dobbiamo scavare un altro po’. Cosa c’è alle radici di tutto questo? Da dove viene la forza per argomentare, aiutare, incoraggiare, farsi carico, promuovere, sacrificarsi, relazionarsi in questo modo nuovo? Lo sappiamo: è il riconoscimento dell’uomo alla sua origine, ancora nascosto nel seno materno, il “totalmente ultimo”, il modello insuperabile di ogni emarginazione umana, colui che non conta e che non ha voce.
Tutta la capacità persuasiva del fare e dell’argomentare, la ragione essenziale dell’esistere dei CAV dipende dalla convinzione che il concepito, il più piccolo e più povero tra gli essere umani, è uno di noi. Ed è anche annunzio di una nuova speranza per il futuro dell’ umanità. I CAV testimoniando «il primato della vita umana a confronto di tutti gli altri valori di ordine materiale, vuole essere un richiamo ai giovani e ai grandi, perché comprendano che una società giusta non si costruisce con l’eliminazione degli innocenti; intende rilanciare il senso della sacralità della vita umana» (Giovanni Paolo II, Firenze 1986). E’ in questa prospettiva che si trova la ragione dell’esistenza dei CAV: le ragioni demografiche e la bellezza della maternità da sole non sono sufficienti. La configurazione dell’aborto come servizio pubblico e gratuito, l’affermazione del diritto di scelta della donna come conquista e progresso, l’inganno semantico che chiama “contraccezione di emergenza” prodotti aventi lo scopo di distruggere il concepito nell’eventualità che si avvenuta la fecondazione, presuppongono – infatti – la cancellazione del concepito come essere umano a pieno titolo. Basta soffermarci un attimo a riflettere sulla recente sentenza della Corte di Cassazione italiana (2 ottobre 2012) sul risarcimento del danno nei confronti di tutta la famiglia per la nascita di Marta portatrice della sindrome di Down. Anche a Marta è stato riconosciuto il diritto ad essere risarcita. La vita di Marta –  quella vita che i giudici definiscono con la brutta espressione di “vita malformata” – “vale” un milione di euro perché, quando Marta era nel grembo della sua mamma, la mamma aveva posto al medico come “condizione imprescindibile” per la nascita della bambina, lo stato di salute della figlia. È forte il contrasto di questa sentenza con la “Giornata sulla sindrome di Down”, istituita proprio quest’anno dall’ONU nella data del il 21 marzo o con la “Giornata internazionale delle persone con disabilità”, promossa dal 1998 sempre dall’ONU e celebrata nella data del 3 dicembre. Come non pensare, poi, alla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (Onu, 2006; ratificata dall’Italia con legge n. 18 del 3 marzo 2009) il cui scopo dichiarato all’art. 1 è “promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità”?
Come si spiega il contrasto? Si spiega perché non si vuole vedere che il bambino che vive nel seno della mamma, sano o malato che sia, è un figlio a tutti gli effetti. E’ un soggetto uguale agli altri in dignità. E’ perciò titolare del diritto alla vita; è persona. Questo riconoscimento è capace di sprigionare energie sempre nuove per spingere la storia dell’umanità nella direzione dell’autentico progresso, segnato dalla forza espansiva della uguale dignità umana.
La presenza dei CAV offre perciò un contributo straordinario nel campo della c.d. “nuova questione antropologica”, questione che oggi si pone davvero in modo radicale e ultimativo in particolare nel campo della vita prenatale. Non è il caso di richiamare uno ad uno i temi sul tappeto. Neppure è il caso di ricordare le manipolazioni linguistiche ambigue e menzognere che accompagnano i tentativi di estromettere il concepito e i suoi diritti fuori dall’orizzonte di attenzione e di interesse civile e politico, di ridurre la libertà all’autodeterminazione individuale estremizzata, di scardinare la dignità dalla vita umana, di stravolgere i diritti umani rendendoli strumenti di prevaricazione dei più deboli e indifesi come quando si pretende di introdurre l’aborto come diritto umano fondamentale. Si pensi alla risoluzione recentemente varata dal Consiglio Onu per i diritti umani, con sede a Ginevra, sulla “Mortalità e morbilità materna prevenibile e i diritti umani”.
Anche sotto questo versante si può leggere la trama di una profezia carica di speranza: l’operazione che con le parole e con i fatti sottrae il concepito agli ormai obsoleti ritornelli della “questione di coscienza” o della “credenza religiosa”, dell’ “opinione personale” e lo colloca sul terreno dei diritti umani – non come oggetto, ma come soggetto – è un’operazione culturale capace di rinnovare il tessuto sociale. Non si tratta, infatti, semplicemente di incrementare le nascite per favorire il ricambio generazionale e abbattere il crollo demografico (per avere braccia per lavorare la terra, bastoni per la vecchiaia), ma di portare a compimento quella profezia laica già annunciata con la moderna idea dei diritti dell’uomo secondo cui non possono esserci pace giustizia e libertà senza il riconoscimento dell’uguale dignità di ogni essere appartenente alla famiglia umana.
La prevenzione (post-concezionale) dell’aborto
Senza questo riconoscimento di valore, perde significato qualsiasi impegno per la vita non nata e lo stesso concetto di prevenzione dell’aborto si svuota e si riduce. Anche su questo i CAV hanno svolto e svolgono un ruolo culturale di primo piano, perché il massimo elemento di prevenzione dell’aborto volontario è il riconoscimento della piena umanità del figlio concepito.
L’attività dei CAV mostra l’efficacia della prevenzione “post-concezionale” che evita l’aborto quando un figlio è già stato concepito e che perciò include a pieno titolo anche le azioni e gli interventi volti a consentire che una gravidanza sia portata a conclusione, anche quando la madre è propensa ad interrompere la gravidanza o ha già preso quella decisione.
Per quanto riguarda poi la questione della “prevenzione contraccettiva” è opportuno rileggere il paragrafo 13 dell’Evangelium Vitae.
In ogni caso, la forza della prevenzione dell’aborto promossa dai CAV viene dal riconoscimento del concepito come “altro”, come essere umano portatore di senso, uguale in dignità, titolare del diritto alla vita. Perciò «Prevenire i concepimenti non è un modo vero di garantire il diritto alla vita, perché un titolare di tale diritto ancora non esiste. È quando un nuovo uomo comincia ad esserci che scatta il dovere della tutela e della garanzia» (MpV, “Trent’anni di servizio alla vita nascente”, Cantagalli, Siena, 2008, p. 11).
Per completezza si aggiunge che il riconoscimento del figlio dal concepimento apre lo spazio per la proposta di una procreazione veramente responsabile che illumina il senso della sessualità collegandolo al valore della vita umana, all’amore, e alla famiglia.
E’ significativo che Papa Benedetto XVI, il 16 novembre 2005,  salutando i delegati del Movimento per la vita radunati in piazza San Pietro, abbia collegato la prevenzione post-concezionale alla stesura di pagine di speranza per il futuro dell’umanità («impegnandovi a prevenire l’aborto volontario, con un’attenta azione di supporto per le donne e le famiglie, voi collaborate a scrivere pagine di speranza per il futuro dell’umanità, proclamando in maniera concreta il “Vangelo della Vita”»).
Un’esperienza offerta alla comunità ecclesiale e civile
Nel 1980 i CAV erano 53, oggi sono 329 distribuiti sull’intero territorio nazionale.
Dal 1975, i bambini nati grazie al sostegno dei CAV sono oltre 140mila, mentre le donne assistite (tra gestanti e non gestanti) hanno superato le 450mila.
Una goccia se pensiamo all’ecatombe degli aborti effettuati dal 1978 ad oggi, ma un risultato straordinario se pensiamo al fatto che l’effettiva opera di prevenzione dei CAV poggia più che sulle forze materiali, sulla capacità di esprimere un’intera comunità religiosa e civile di cui i CAV sono strumento e motore. I CAV rendono specifica la generale premura della sensibilità cristiana verso i soggetti poveri e deboli, soli, fragili, emarginati e minacciati. Se c’è di mezzo un essere umano, un bambino, la responsabilità di riconoscerne il valore è di tutta la società. La stessa efficacia dei CAV fu pensata dall’inizio in relazione alla possibilità di una rete di solidarietà di cui il CAV dovesse essere il punto di coagulo organizzativo dell’intero popolo della vita. A riguardo sono interessanti gli atti del Convegno CAV del 1984 dal tema «Volontariato per la vita: da una esperienza a una proposta per la società». «Se poche persone, con scarsi mezzi hanno potuto salvare […] bambini senza mai subire rimproveri successivi dalle mamme (anzi con ringraziamento), perché non considerare questa esperienza un modello ripetibile su più larga scala come esperienza che tutta la società deve seguire?» (Convegno CAV 1997 – “Le ragioni, i segni, le esigenze dell’accoglienza”).
Oggi dopo 37 anni di appassionato lavoro non vi sono dubbi sulla maturazione e l’approfondimento di questa esperienza, arricchita di specifici nuovi servizi.
«L’aiuto alla donna in gravidanza  – si legge nel parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del 16 dicembre 2005 (“Aiuto alla donna in gravidanza e depressione post-partum”) – esige […] profili di intervento diversi e complementari, che coinvolgono dimensioni educative, psicologiche, sanitarie e sociali. La relegazione di una donna nella solitudine, sia essa materiale o morale, dinanzi all’impegno della maternità costituisce infatti violazione radicale della dignità umana della donna medesima e del figlio, e nel contempo rappresenta il fallimento dei vincoli solidaristici fondamentali per la convivenza civile». E non è anche per evitare questo fallimento che esistono i CAV?
I CAV possono essere un modello per una radicale trasformazione dei consultori pubblici e proprio ad essi – ai CAV – si riferisce il progetto di riforma consultoriale elaborato dal MpV e dal Forum delle associazioni familiari. Ad essi – ai CAV – è ispirato anche un progetto di legge, elaborato dal MpV, sulla riforma della 194, presentato alla Camera dei deputati il 23 gennaio 1992 (n. 2160) e pubblicato negli atti del Convegno CAV di quello stesso anno.
Non è stato un lavoro animato da una speranza profetica?
La pace e la ferita dell’aborto
Vi sono altri profili per i quali i CAV possono definirsi “speranza profetica nella storia”. Traggo spunto da un passaggio del discorso di Benedetto XVI ai Membri del Governo, delle Istituzioni della Repubblica, del Corpo Diplomatico, ai Capi religiosi e ai Rappresentanti del mondo della cultura, in Libano il 15 settembre scorso: «Oggi le differenze culturali, sociali, religiose, devono approdare a un nuovo tipo di fraternità, dove, appunto, ciò che unisce è il senso comune della grandezza di ogni persona e il dono che essa è per se stessa, per gli altri e per l’umanità. Qui si trova la via della pace». Il legame tra fraternità, riconoscimento della grandezza dell’uomo sin dal concepimento e pace è da sempre all’attenzione della cultura della vita
Pace significa anche pace con se stessi, con il proprio bambino non nato «che ora vive nel Signore» come si legge nell’ “Evangelium Vitae” (n. 99) e con il Padre della Vita. Sto parlando di quella sofferenza interiore che non dà pace, vissuta in solitudine causata dall’aborto. Se nella società il figlio non nato è misconosciuto, è misconosciuta anche la ferita dell’aborto volontario. Eppure è un dolore, ormai documentato anche scientificamente, nascosto nelle pieghe della quotidianità, ma tanto presente da risvegliarsi puntualmente in modo acuto in alcune situazioni o da spingere a rivolgersi a un sacerdote o a uno psicoterapeuta. È significativo che Dacia Maraini, nota per le sue posizioni vetero-femministe, abbia scritto su Repubblica del 4 febbraio 2005: «l’aborto non è una bandiera, né un diritto, né una conquista. E’ una sconfitta storica bruciante e terribile che si esprime in un gesto brutale contro se stesse e il figlio che è stato concepito».
La c.c. “sindrome post-aborto” è una delle nuove povertà su cui i CAV da tempo si interrogano. Anche qui, è interessante rileggere gli atti del Convegno del 1987 in cui ad una Commissione di studio fu affidato il tema dell’assistenza alla donna che ha abortito.
Anche su questo fronte i CAV mostrano di essere luoghi di accoglienza. Si tratta, ovviamente, di una disponibilità verso la donna che non si colora in alcun modo di approvazione verso l’aborto compiuto. Anche su questo fronte c’è una sfida alla cultura della morte. Per rispondere a questa nuova emergenza a Roma, presso il CAV Palatino e presso un centro Caritas, è stato inaugurato “Da donna a donna”, uno sportello gratuito che vuole essere un servizio di recupero e consulenza psicologica per donne con difficoltà post aborto. Questo nuovo servizio è frutto del progetto “Futuro alla vita” realizzato dal MpV. È un’esperienza pilota che potrebbe essere esportata negli altri CAV diffusi sul territorio italiano.

Il fondamentale collegamento con il MpV
Non sarebbe comprensibile il lavoro dei CAV senza tenere conto di quello del MpV. La lettura del libro intervista di Renzo Agasso a Carlo Casini, “Sì alla vita. Storia e prospettive del Movimento per la vita” (San Paolo, 2011) è altamente istruttivo a riguardo. Non pochi Movimenti locali adempiono anche le funzioni dei CAV, ma soprattutto il MpV prepara il terreno per il sorgere, il crescere, il consolidarsi  dei CAV. Si pensi al materiale diffuso (manifesti, dossier, filmati, libretti) utilizzato nell’opera di prevenzione. Si pensi anche ai concorsi europei, ai seminari, ai corsi di bioetica, ai rapporti al Parlamento, alle numerose pubblicazioni, al giornale Sì alla vita, e a molte altre iniziative. Tutto questo ha favorito e favorisce l’humus culturale per la costituzione e la crescita dei CAV. È inseparabile la solidarietà concreta dalla presenza culturale, educativa, politica e legislativa. L’iniziativa europea “Uno di noi” può leggersi anche in questa prospettiva. Gli stessi Convegni dei CAV, che dal 1981 ad oggi si sono svolti in vari luoghi d’Italia proprio per rendere visibili in molti luoghi la realtà dei CAV, hanno costituito e costituiscono tappe miliari in questo senso. Tavole rotonde e testimonianze hanno coinvolto politici, giornalisti, sindacalisti, vescovi, dirigenti di associazioni cattoliche, scienziati, rappresentanti di movimenti pro-life stranieri. Incontro di studio di problemi pratici organizzativi e assistenziali, strumento per scambiare esperienze, luoghi di diffusione della cultura della vita, essi hanno coinvolto in modi sempre più significativi espressioni di culture diverse in uno sforzo di dialogo che fa appello appassionato all’unità attorno al valore della vita ed hanno già da tempo iniziato ad avere significativi effetti sull’opinione pubblica.
CAV e MpV: due facce della stessa medaglia, perché si tratta di amare e servire la vita.
Una “speranza profetica” del popolo della vita è quella per cui verrà un tempo in cui l’aborto sarà considerato inaccettabile come la tortura, la pena di morte, la guerra come strumento per risolvere i problemi. Merito delle parole che fanno cultura – “la parola salva la vita”, è stato detto tante volte -,  ma soprattutto merito dell’amore presente nei CAV vissuto come segno di unità con la mamma e il bambino che porta in seno e come capacità di dialogo con tutti. Ma non si può pensare ad un efficace dialogo con gli altri, ad una credibile testimonianza, alla persuasività dell’impegno per la vita, se non c’è unità profonda nel popolo della vita. Non c’è forza persuasiva nell’amore verso il fratello non nato – che non si vede – se non c’è la tensione a sviluppare l’amore per il fratello che si vede (parafrasi di Giovanni, 1, 4-20; da: “Appello al popolo della vita” contenuto nel libro intervista di Renzo Agasso a Carlo Casini, “Sì alla Vita. Storia e prospettive del Movimento per la Vita”, San Paolo, 2011, pp. 185).

di Marina Casini

 

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