Il 2020 è stato sicuramente uno degli anni più duri di sempre sul fronte del diritto alla vita. E il 2021 si appresta raccogliere quanto si è seminato nei dodici mesi precedenti. In mezzo a tante prospettive fosche, brilla qualche luce isolata. È fondamentale, quindi, mettere a fuoco ogni realtà nazionale e sovranazionale, per valutare che impatto avranno le nuove politiche a livello nazionale e globale.
Le preoccupazioni più grosse, inutile dirlo, vengono dagli Stati Uniti. Dal giorno del suo insediamento, il prossimo 20 gennaio, il nuovo presidente Joe Biden porterà una rivoluzione copernicana nelle politiche sull’aborto. Pur essendo cattolico e pur essendo stato per molti anni pro life, Biden dovrebbe innanzitutto rimuovere il bando ai finanziamenti federali alle organizzazioni non governative che finanziano o procurano l’aborto. Dopo quattro anni di “traversata” nel deserto durante l’amministrazione Trump, Planned Parenthood si prenderà la sua rivincita e la prospettiva è l’apertura di nuove cliniche per l’aborto, finanziate con soldi pubblici, quindi più economiche.
La conquista del Senato da parte dei dem (dopo i ballottaggi in Georgia, i seggi sono tecnicamente in parità ma, in questi casi, può intervenire il voto della vicepresidente Kamala Harris a sbrogliare tutte le situazioni di stallo) apre a scenari ancor più inquietanti quali l’estensione del diritto all’aborto fino al sesto o l’aborto “a nascita parziale”. La svolta pro choice che si prospetta con l’amministrazione Biden va inquadrata in un contesto più ampio che include le riforme del Green New Deal. La politica di riduzione delle emissioni di Co2 va a braccetto con le immarcescibili ideologie maltusiane. Le stesse manifestazioni promosse da Greta Thunberg sono in linea con l’estensione del diritto all’aborto, in ossequio al paradigma antinatalista, per cui un pianeta sovraffollato sarà sempre necessariamente un pianeta inquinato e surriscaldato.
Una delle eredità più preziose dell’amministrazione Trump in ambito pro life è sicuramente il Patto di Ginevra sulla Promozione della salute delle donne e sul rafforzamento della famiglia. Nell’accordo, siglato oltre che dagli Usa, da altri 31 paesi, tra cui Haiti, Egitto, Brasile, Ungheria, Uganda e Indonesia, viene affermato il diritto dei governi nazionali a portare avanti politiche di protezione della vita nascente, senza intromissioni da parte delle Nazioni Unite. Il documento deplora il ricorso all’aborto come metodo di “pianificazione familiare” e, al tempo stesso, rivendica una concezione di “salute sessuale e riproduttiva” che tenga sempre conto dei diritti inviolabili del nascituro.
Non vanno affatto bene le cose in Italia, dove pure da molti anni, gli aborti censiti sono in costante flessione. Dal 1982 ad oggi, di anno in anno, le interruzioni di gravidanza sono sempre diminuite ma il merito, più che dei consultori, è da ascrivere alla diffusione sempre più massiccia della contraccezione e, in tempi più recenti, all’aumento dell’infertilità tra le coppie. La vera incognita è però rappresentata dall’aborto farmacologico, i cui dati sono più difficilmente incasellabili nelle statistiche ufficiali. Le linee guida approvate lo scorso agosto dal ministro della Salute, Roberto Speranza sull’onda dell’emergenza Covid permettono l’assunzione della pillola Ru486 senza ricovero e prorogata fino alla nona settimana di gravidanza. Innovazione che è stata salutata dallo stesso ministro come “un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese”. Affermazione davvero curiosa per il rappresentante di un governo che, almeno a parole, starebbe smuovendo mari e monti pur di salvare vite umane dal Covid…
Spostando il periscopio sulla realtà complessiva dell’Unione Europea, è assai evidente la scollatura tra i paesi occidentali, sempre più maltusiani, e i paesi ex comunisti, che, a suo tempo, subirono l’imposizione dell’aborto legale da parte dell’Unione Sovietica e che, anche per questo, hanno patito anni di inverno demografico. Tra i primi, figura senza tema di smentita la Francia, dove lo scorso agosto, l’Assemblea Nazionale ha approvato un emendamento che estende la facoltà di abortire fino al nono mese, in caso patologia “incurabile” del feto o di “grave pericolo” per la salute della gestante. Diametralmente opposto lo scenario in Polonia, dove in ottobre la Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittimo l’aborto in caso di grave malattia o malformazione del feto. Decisione, però, congelata dal governo, in seguito alle aggressive manifestazioni di piazza dei pro choice. Assieme all’Ungheria, la Polonia è nel mirino dell’Unione Europea per le posizioni pro life e pro family del suo governo. Lo scorso 4 dicembre, infatti, l’Europarlamento ha votato una risoluzione contro la suddetta sentenza della Corte Costituzionale polacca.
A braccetto con l’Unione Europea, va soprattutto l’ONU. Spalleggiato da Bruxelles e dall’OMS, il segretario generale Antonio Guterres considera infatti “servizi di salute sessuale e riproduttiva fondamentali per la salute, i diritti e il benessere di donne e ragazze”. A tal proposito l’ONU ha diffuso in aprile un documento intitolato L’impatto del COVID-19 sulle donne, che ha prodotto due risoluzioni, una delle quali, appoggiata dai paesi dell’Europa occidentale, indica, per l’appunto, l’aborto come pratica essenziale ai fini della prevenzione della pandemia.
Un ultimo sguardo all’America Latina. La legalizzazione dell’aborto in Argentina, nonostante la fiera resistenza di piazza dei pro life, rappresenta una ferita molto profonda nell’anima popolare del continente. Rimane in piedi, tuttavia, un bastione importante: il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, ha preso le distanze da quanto avvenuto a Buenos Aires, e ha fieramente proclamato: “In Brasile l’aborto non sarà mai legale”.