Con la pubblicazione, nei giorni scorsi, dello scoop del quotidiano online Politico, che ha pubblicato la bozza dell’opinione di maggioranza della Corte Suprema che - se approvata - ribalterà la “Roe vs Wade,” la sentenza che nel 1973 ha imposto l’aborto negli Usa, in America si è sollevata un’ondata di proteste. Se infatti questa anticipazione, ancorché diffusa illegalmente - motivo per cui l’Fbi è sulle orme dei responsabili della clamorosa fuga di notizie -, da una parte ha suscitato l’entusiasmo del mondo pro life, non solo americano, dall’altra ha mandato in allarme tutto il fronte abortista, che si è subito mobilitato.
Inutile dire che tali proteste sono state prontamente presentate da molti media come figlie di una battaglia ideale, come cioè il tentativo di proteggere l’autodeterminazione delle donna e il conseguente «diritto all’aborto». In realtà, come spesso capita, le cose sono ben più complesse. Nel senso che indubbiamente il possibile rovesciamento della “Roe vs Wade” tocca corde ideali care alla cultura liberal americana, ma non c’è soltanto questo. Infatti, anche se quasi mai lo si ricorda, negli Stati Uniti l’aborto è anche – se non soprattutto – una vera e propria industria miliardaria. Un’industria di morte, ovviamente, ma capace di muovere immense quantità di quattrini.
Lo dimostra anzitutto il fatto che, ogni anno, l’America spende circa 260 milioni di dollari in fondi del Titolo X, ovvero per la pianificazione familiare per persone a basso reddito, e Planned Parenthood è un enorme beneficiario di quei fondi, dato che ne intasca una parte che oscilla tra i 50 ed i 60 milioni. C’è inoltre da tenere presente come da quelle parti, a differenza che in Italia, l’aborto non sia rimborsato dallo Stato. Quindi abortire costa. Quanto? Mediamente tra i 200 e i 500 dollari.
Ora, se consideriamo che ogni anno gli aborti negli Usa sono oltre 1 milione e che la sola Planned Parenthood (PP) «ne vanta» oltre 330.000 all’anno, facendo un rapido calcolo possiamo dire che il business dell’aborto vale negli Usa tra i 200 e i 500 milioni di dollari (quindi potenzialmente mezzo miliardo), di cui per la sola PP tra i 65 e i 165 milioni di dollari. Il punto è che per quanto impressionanti, questi sono e restano comunque numeri al ribasso. Molto al ribasso. Basti pensare, infatti, che solo nel 2014 Warren Buffett, vale a dire il secondo uomo più ricco d’America, aveva destinato oltre un miliardo di dollari all’industria dell’aborto.
Sempre dai dati riferiti a quell’anno del Guttmacher Institute - ovvero il braccio di ricerca di Planned Parenthood, dunque certamente non una fonte “pro life” - sommando gli introiti degli aborti del primo trimestre con quelli del secondo e terzo, veniva fuori che ogni anno negli Stati Uniti l’industria dell’aborto portava circa 900 milioni di dollari alle cliniche. Non è finita. Si devono infatti considerare anche i circa 337 milioni di dollari che, complessivamente, sempre PP riceve ogni anno in contributi pubblici, evidentemente oltre quelli riferiti al Titolo X. Dunque l’importo annuo del sistema abortivo americano, alla fine, supera di molto il miliardo di dollari. Ne consegue, per quanto si tratti di conteggi per ovvie ragioni non precisi al centesimo, come davvero l’aborto negli Usa sia un business enorme, anzi mastodontico.
Non appare dunque azzardato definire quella abortista una lobby non meno influente e potente rispetto a tante altre, comprese quelle di armi e tabacco. Solo così, in effetti, si può spiegare non solo il caos che ha generato l’esplosiva anticipazione della succitata opinione di maggioranza della Corte Suprema, ma anche il fatto stesso che essa sia uscita anzitempo. Perché quello che, almeno in apparenza, ha le vesti di uno scoop, visto da vicino potrebbe rivelarsi ben altro, e cioè l’estremo tentativo di un’industria miliardaria di tutelare se stessa e i suoi enormi affari.