Il tema caldo del fine vita, sul quale i radicali hanno impiantato una delle loro più dure battaglie, indicando l’eutanasia come unica possibile, soluzione per una morte “dignitosa”, sta coinvolgendo, fortunatamente, anche molti medici che non considerano l’eutanasia esattamente una “dolce morte” e che vedono strade alternative molto più valide, una fra tutte, l’eubiosia. Cos’è l’eubiosia e perché è l’esatto contrario dell’eutanasia? Ne abbiamo parlato con il professor Filippo Boscia, presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani.
Professore, vogliamo spiegare per chi non lo sa, cos’è l’eubiosia?
«Il progetto dell’eubiosia sorge per l’attività di alcuni medici che, impegnati nella cura dei malati oncologici, sono arrivati alla conclusione che i pazienti, con questa tecnica, vivono meglio e hanno più possibilità di guarire e rispondere meglio alle cure, soprattutto se deospedalizzati. Quindi questo progetto si fonda sulla creazione degli ospedali domiciliari oncologici. Il primo a proporlo è stato il professor Pannuti, del Sant’Orsola. Anche noi della scuola barese di bioetica, ci siamo a lungo impegnati in tal senso. Proprio in riferimento all'eubiosia credo sia opportuna la strada che il Ministero della Sanità sta portando avanti in questo momento, ovvero quella di una medicina sempre più territoriale e dell'abolizione della concezione ospedalocentrica della malattia. Con la nostra visione, invece, si potranno creare ospedale che chiameremmo "senza muri", proprio perché si fanno rientrare le persone ammalate nei loro personali domicili.
Dunque una nuova visione della medicina?
«Sì, si tratta di riportare la medicina ai tempi in cui era umana ed era ovviamente vissuta anche con supporti diversi, rispetto a quelli medici. Il malato ha pieno diritto ad essere assistito sempre, soprattutto quando la sofferenza si fa più critica. Se ha un supporto familiare, chiaramente, i suoi diritti, non solo vengono tutelati dalla società, ma vengono tutelati anche all’interno della famiglia. Questa innovazione credo che consenta al malato di mantenere la sua dignità e anche di guadagnare una vita accettabile. Da qui viene il termine “eubiosia” che significa “vita con dignità».
Le cure palliative rientrano all’interno dell’eubiosia?
«Certamente. Le cure palliative sono garantite da una legge dello Stato, la n. 38 del 2020, anche se è stata dormiente per molto tempo. Questa norma garantisce l’accesso alle cure palliative per la terapia del dolore e pone questo tipo di cure all'interno dell'ambito dei livelli essenziali di assistenza. Inoltre è bene ricordare che le cure palliative interessano ogni tipo di sofferenza, sia quelle causate da malattie inuguaribili, ma sempre curabili, sia quelle malattie legate a patologie croniche. Tra queste rientrano anche le disabilità respiratorie o mentali»
A che punto siamo con le cure palliative? In cosa consistono?
«Le cure palliative leniscono sul dolore e agiscono su di esso, che viene gestito in un’ottica multidisciplinare, dunque con un percorso assistenziale che va a mantenere sempre alta l’attenzione verso la dignità e la qualità di vita degli assistiti. I medici cattolici come me vorrebbero che queste disposizioni che garantiscono l’accesso alle cure palliative siano rispettate, soprattutto creando delle reti di assistenza come gli hospice, ma anche tramite gli ospedali domiciliari oncologici, dunque seguendo il malato a casa sua».
Quindi l’eubiosia è una valida alternativa all’eutanasia?
«Noi medici cattolici siamo contrari all’eutanasia e questo lo diciamo ad alta voce. Abbiamo la profonda convinzione che l’ammalato non chiede di morire, ma chiede di non soffrire e continuerà a chiedere di non morire se sarà assistito con umanità. Sappiamo, infatti, che chi è malato chiede di di essere ascoltato, di rimanere vivo fino all’ultimo giorno, chiede di essere aiutato dalla società ma anche dalla famiglia. Proprio l’umanità e la continuità assistenziale rimuovono la domanda eutanasica e danno vita all'eubiosia. Alla base di questa filosofia c'è la convinzione, inoltre, come ho detto prima, che sia fondamentale un lavoro familiare, che considera la vita un valore sacro ed inviolabile. Da qui, dunque, una visione che mette la vita umana al centro di ogni cosa, tanto di un bambino appena nato quanto di un uomo morente. Entrambi, infatti, sono sullo stesso piano e nessuno dei due va abbandonato. La vita appena nata a quella che sta per finire sono fragili e hanno le stesse esigenze e in nessuncaso si deve ricorrere all'eutanasia per lenire il dolore, dunque per pietà. L'aiuto medico a far morire una persona non rappresenta nessuna forma di pietà, ma, anzi, non fa altro che incrementare le sofferenze fisiche, morali e sociali che dice di voler combattere».